«Sergio Marchionne? Non spetta a me dare giudizi. Io lavoro perché la Fiat resti in città». Il sindaco di Torino Piero Fassino evita polemiche e difende il suo operato. «Il nostro debito pubblico è alto, ma è diverso da quello delle altre metropoli. Noi abbiamo investito molto». Dal Piemonte a Roma. «Ha ragione Bersani, nel 2013 basta governi tecnici. Di Monti ci sarà ancora bisogno, ma non a Palazzo Chigi. Il leader del primo partito ha il diritto di guidare il Paese. Basta con l’anomalia del 2006, quando al momento delle elezioni mi chiesero di fare un passo indietro».
Torino e la Fiat. Il rapporto tra la città e il gruppo industriale è sempre più difficile?
Dopo l’accordo con Chrysler la Fiat sta andando incontro a un’importante trasformazione. È naturale che dalla fusione di due grandi società scaturisca un processo di riorganizzazione. Cambia la struttura e il modo di fare azienda. A questa dinamica si è aggiunta la crisi economica, che ha colpito pesantemente anche il settore automobilistico. Il processo di ristrutturazione del gruppo e la crisi hanno avuto conseguenze sugli organici del gruppo e sull’occupazione. Che la Fiat stia affrontando una fase difficile è sotto gli occhi di tutti. Ma l’impatto sui lavoratori deve essere il più contenuto possibile.
Il suo predecessore Sergio Chiamparino ha difeso spesso Marchionne, considerato il manager che ha salvato il gruppo Fiat e ha impedito la chiusura di Mirafiori. Lei è d’accordo?
Qui non si tratta di fare i difensori o gli accusatori. I fatti sono evidenti. Senza l’accordo con Chrysler la Fiat sarebbe andata incontro a una crisi molto peggiore. Senza l’integrazione con Chrysler la Fiat oggi sarebbe un’azienda a rischio. La scelta di quell’intesa è stata giusta. Riconosco questo dato obiettivo. Naturalmente bisogna sapere che da una fusione di questo tipo seguono sempre processi di ristrutturazione.
Si può dire che Marchionne ogni tanto esagera? Per esempio quando ha definito una sentenza su Pomigliano “folklore locale”.
Ognuno è il titolare delle sue opinioni. Ognuno è libero di esprimere il proprio parere. Il sindaco non ha il compito di dare le pagelle, ma di lavorare perché la Fiat resti a Torino. Cosa che io faccio ogni giorno.
Olimpiadi 2006. A sei anni di distanza, date le difficoltà economiche del comune, per Torino sono state un investimento o un errore?
Le Olimpiadi sono state una scelta giusta. Hanno rappresentato un punto di arrivo nel processo di trasformazione della città. Un percorso iniziato a metà degli anni Novanta che ha modificato la nostra struttura urbana, economica e sociale. I Giochi invernali sono stati la vetrina che ha mostrato al mondo una nuova Torino. Ma le Olimpiadi hanno rappresentato anche un punto di partenza: il grande investimento ha consentito alla città di consolidare quel cambiamento. Torino è stata per oltre un secolo una realtà industriale. Oggi è una città molto diversa. Plurale. Oltre alla vocazione manifatturiera è una realtà finanziaria, universitaria, turistica e culturale.
Il debito pubblico però ha raggiunto i quattro miliardi di euro.
Il debito di Torino è estremamente diverso da quello delle altre città. Non è legato alla spesa corrente, ma al fatto che abbiamo investito molto. Dal metrò al termovalorizzatore. Quando si investe ci si indebita. È come aprire un mutuo per comprare un appartamento. Quando si finiscono di pagare le rate, però, la casa rimane. E noi intendiamo onorare il nostro debito.
Il bilancio di Torino dovrà fare i conti anche con la spending review del governo Monti.
La spending review ci costringe ulteriormente a governare la spesa. Noi abbiamo fatto una scelta: una politica di rigore e di riduzione del debito, ma senza incidere sui servizi ai cittadini. Come si può fare? Ad esempio ricorrendo a maggiori investimenti privati per compensare le minori risorse pubbliche.
Per il 2013 Pierluigi Bersani propone un governo di centrosinistra. Basta esecutivi tecnici. Conferma la linea del segretario?
Certo. Questo governo è nato in una situazione di emergenza. Lo stesso Monti considera le elezioni del 2013 come l’orizzonte finale della sua esperienza politica. Tra un anno è giusto che il Paese riconquisti il diritto all’alternanza politica.
L’Italia non ha davvero più bisogno di Monti?
Non è così. Di Monti c’è bisogno. E può dare il suo contributo al Paese in molti ruoli e con diverse modalità.
Qualcuno ipotizza il Quirinale. Lei dove immagina il Professore?
Non spetta a me dare indicazioni. Monti ha già dato il suo grande contributo all’Italia da commissario europeo, ma anche da autorevole economista. Si valuterà quando sarà il momento.
Nel 2001 lei è stato eletto segretario dei Ds. Berlusconi era il leader del centrodestra già da sette anni. Oggi il candidato del Pdl è ancora lui.
Il ritorno di Berlusconi è un segnale di crisi. Il centrodestra non è riuscito a elaborare una riflessione critica sulle sue esperienze alla guida del Paese. Si dimostra un fronte politico incapace di esprimere un’altra leadership e di offrire un progetto credibile.
Intanto il centrosinistra è alle prese con il tema alleanze. Il patto progressisti-moderati prevede un accordo con Vendola e Casini. Sarà davvero possibile trovare una sintesi tra i due?
Non c’è alcuna difficoltà, anche perché l’alleanza con Udc e Sel esiste già. Funziona in centinaia di amministrazioni comunali. A partire da Bari.
Tornando alle larghe intese. Nel 2006 lei era il segretario del primo partito, ma ad andare a Palazzo Chigi fu qualcun altro. Sei anni dopo Bersani corre lo stesso rischio?
Credo che anche in Italia ci debba essere una regola chiara, la stessa che già esiste in tutti gli altri paesi europei. Il leader politico del partito che vince le elezioni ha il diritto di guidare il Paese. È un diritto. E nel nostro caso è sancito da un’ulteriore legittimazione: le primarie.
Lei quel diritto non l’ha avuto. Al governo andò Romano Prodi.
Lasciamoci alle spalle il passato e l’anomalia di quella situazione. Si è chiesto al leader di gestire il partito in un momento difficile, ma quando ci si è presentati davanti agli elettori il leader ha dovuto farsi da parte per lasciare il posto a un altro. Quella resta un’anomalia. La regola deve essere un’altra.