L’allarme è stato lanciato ieri a Palazzo Madama, durante le dichiarazioni di voto sul pacchetto di riforme costituzionali. La presidente dei senatori Pd Anna Finocchiaro l’ha spiegato con chiarezza: «È tutto travolto. Niente riforme, a cominciare dalla riduzione del numero dei parlamentari». Il rischio è proprio questo. La decisione di Pdl e Lega di inserire nel disegno di legge il semi presidenzialismo e il Senato federale ha fatto saltare l’accordo faticosamente trovato nella maggioranza che sostiene il governo. E così, senza una larga condivisione, molto probabilmente il provvedimento non vedrà mai la luce. Stessa sorte per i due articoli che riducono il numero di deputati e senatori. Insomma, il taglio dei parlamentari rimarrà una promessa non mantenuta. L’ennesima.
Il pacchetto di riforme approvato dal Senato e da oggi all’attenzione della Camera prevede una piccola ma significativa sforbiciata ai seggi parlamentari. L’articolo 2 riduce i deputati da 630 a 508 (di cui otto residenti all’estero). Quello successivo istituisce il Senato federale. Composto da 250 senatori – oggi sono 315 – «eletti a suffragio universale e diretto su base regionale» e integrato dai rappresentanti degli enti locali.
Riforma non incisiva, ma sacrosanta. Peccato che i tempi per l’approvazione siano molto stretti. Forse troppo. Per i provvedimenti di revisione Costituzionale la Carta prevede due passaggi per ogni Camera, a distanza di almeno tre mesi l’uno dall’altro. In questo caso – ammesso che non ci siano modifiche – l’ultimo voto sarebbe calendarizzato a gennaio. Lo stesso mese in cui il Capo dello Stato avvierà le procedure per lo scioglimento delle Camere. Senza contare che una volta saltato l’accordo in maggioranza, Pdl e Lega rischiano di non avere i numeri sufficienti per licenziare il testo.
Eppure una strada per salvare almeno la riduzione dei parlamentari ci sarebbe. Una volta approdato a Montecitorio, il pacchetto di riforme dovrebbe essere “smembrato”. Stralciati i due articoli in questione, i deputati potrebbero votare solo quelli e rispedire il tutto al Senato. Ipotizzando un voto alla Camera a settembre e uno a Palazzo Madama a inizio ottobre, l’iter si chiuderebbe con gli ultimi due passaggi a dicembre e gennaio. In tempo, forse, prima dello scioglimento del Parlamento. Ma anche questo percorso è a rischio. Stavolta il motivo è politico. Per autorizzare lo stralcio, Pdl e Lega dovrebbero rinunciare al semi presidenzialismo e al Senato federale. Le riforme che, secondo molti osservatori, costituiranno uno degli argomenti più convincenti della prossima campagna elettorale di Silvio Berlusconi. Non succederà mai.
Il costituzionalista Stefano Ceccanti, senatore del Pd, non ha troppi dubbi: «Tecnicamente la riduzione del numero dei parlamentari sarebbe anche possibile. Ma temo che non si farà». Per il rappresentante democrat il problema è di natura procedurale. Una volta stralciati i due articoli, il testo tornerebbe al Senato in ottobre. «Quindi la terza lettura di Palazzo Madama – spiega Ceccanti – non potrebbe avvenire almeno fino a gennaio, proprio quando è previsto lo scioglimento delle Camere». Il risultato? «Ormai temo che non ci siano più i tempi». Il senatore pidiellino Lucio Malan non è d’accordo. «Chi dice che non c’è più tempo esprime un’opinione politica. Fino a gennaio si può votare». I mesi a disposizione sono pochi. «È vero, ma bisogna anche considerare che una volta arrivato alla terza lettura, il provvedimento viene approvato dalle Camere con un solo voto. Non c’è più la discussione e l’esame degli emendamenti, le procedure sono estremamente veloci».
A Montecitorio il pacchetto di riforme è atteso in commissione Affari costituzionali. Tra i deputati che inizieranno l’esame del testo c’è Giorgio Conte, capogruppo di Futuro e Libertà. «Sono convinto che le riforme dovrebbero essere approvate sempre in maniera organica – ammette – Ma davanti all’ipotesi di non fare nulla sarebbe meglio approvare almeno qualcosa. Ecco perché sarebbe auspicabile almeno lo stralcio degli articoli sulla riduzione del numero di deputati e senatori». La fiducia sulla riuscita dell’operazione è poca. «Tutto può essere – spiega Conte – ma se dovessi scommettere punterei sulla mancata approvazione».
L’esponente Pd Salvatore Vassallo – anche lui in commissione Affari costituzionali – ha gli stessi dubbi. «La riduzione del numero dei parlamentari è il minimo che possiamo fare. Anche se spero ancora in qualcosa di più. Perché il taglio di deputati e senatori, nell’ottica di un contenimento dei costi, è ben poca cosa. I veri costi inutili riguardano la struttura bicamerale. E non si risolvono con la truffa del Senato federale approvato a Palazzo Madama». Vassallo fissa una road map per la riforma. «Il 15 settembre suona la campanella. Se non avremo trovato un accordo su un pacchetto di riforme più ampio, dovremo concentrarci sulla riduzione del numero dei parlamentari. Altrimenti si prende in giro la gente». Eppure anche in quel caso il tempo a disposizione rischia di non essere sufficiente. Un terzo passaggio al Senato in gennaio è al limite. Verso la fine del mese, infatti, il presidente della Repubblica dovrebbe aver già sciolto le Camere. «I tempi sono stretti – ammette Vassallo – e considerata l’inconcludenza dei partiti e del Parlamento non è facile essere ottimisti».
Chi non ha troppi dubbi è Pino Pisicchio. Secondo l’esponente dell’Api la riduzione del numero di deputati e senatori finirà nel nulla. Pisicchio è uno degli sherpa che ha materialmente scritto il disegno di legge sulle riforme costituzionali – nella sua versione originaria – depositato al Senato. Provvedimento profondamente modificato dall’introduzione del semi presidenzialismo e del Senato federale. «L’operazione con cui Pdl e Lega hanno stravolto l’intesa che avevo sottoscritto insieme a Violante e Quagliariello ha un solo significato: buttare la palla sugli spalti per non fare nulla». Almeno la riduzione del numero dei parlamentari potrebbe essere salvata. «Tecnicamente sì – riconosce Pisicchio – sarebbe il minimo sindacale. Ma dall’atteggiamento di Lega e Pdl mi sembra evidente che non si arriverà nemmeno a quell’obiettivo».