Una nuova rivoluzione liberale. Meno Stato, meno partiti, meno tasse. Silvio Berlusconi torna in pista e rilancia il sogno “americano” che diciotto anni fa caratterizzò la sua prima discesa in campo. Per riconquistare il favore degli italiani si torna allo spirito del ’94. Una scelta politicamente e mediaticamente legittima. Forse anche redditizia. Peccato che a tradire quella rivoluzione sia stato proprio il Cavaliere. Dopo tre esperienze di governo e dieci anni a Palazzo Chigi il grande progetto berlusconiano è rimasto un’ipotesi. E adesso, come se nulla fosse, l’ex premier ci riprova.
Non solo slogan. Come coniugare l’abbattimento della pressione fiscale con il rigore di bilancio reso necessario dalla crisi? Per discutere le nuove strategie da presentare in campagna elettorale il Cavaliere incontra oggi il gotha del liberismo internazionale. Economisti europei e americani convocati a Lesmo per un summit a porte chiuse. Un incontro a cui sta lavorando da almeno due mesi il teorico dell’impostazione originaria di Forza Italia. L’ex ministro Antonio Martino, oggi deputato del Pdl. Stretto riserbo sugli ospiti del forum. Dovrebbero essere una settantina, tra cui alcuni premi Nobel (tra questi l’economista statunitense Gary Becker ).
Sicuramente non ci sarà Giulio Tremonti. Il titolare di via XX Settembre durante i governi Berlusconi (salvo un breve parentesi imposta da Gianfranco Fini). La longa manus del Cavaliere in tema di economia e finanza. L’uomo cui, per un decennio, Berlusconi aveva affidato le chiavi dei suoi dicasteri economici, senza troppo guardare alle promesse liberali della discesa in campo.
Meno tasse per tutti. Tra le campagne di comunicazione di Berlusconi questa è una delle più ricordate. Ma la rivoluzione antistatalista di Forza Italia era molto di più. «Il neonato partito si presentò alle sue prime elezioni con un programma di riforme liberali quale non si era mai visto in Europa» ricordava sul suo blog Antonio Martino. Più spazio per imprese e individualità. Magari a discapito degli accordi con i sindacati. Meno allo Stato invadente e illiberale. «Credevamo che dalla privatizzazione delle troppe attività statali si sarebbero ricavate risorse per ridurre l’immenso stock di debito pubblico e che, grazie anche alle liberalizzazioni, avrebbero dato un impulso alla crescita».
Al di là della nostalgia, cosa resta oggi di quel sogno? Poco. Forse niente. Ecco perché il ritorno allo spirito del ’94 di Berlusconi assume i connotati della presa in giro. L’ennesima, dato che il progetto viene ciclicamente recuperato. Intanto la spesa pubblica continua a crescere. Solo dal 2001 al 2006 – a Palazzo Chigi c’era Silvio Berlusconi – è aumentata di quasi il 17 per cento. Così la pressione fiscale. «Se il cittadino percepisce le tasse come giuste, se gli si richiede di versare il 33 per cento, è invogliato a pagare – diceva il Cavaliere nel 2004 – Se invece gli si chiede il 50 per cento del suo reddito si sente moralmente autorizzato ad evadere». Otto anni dopo – quasi sei dei quali con il centrodestra al governo – il peso del fisco sugli italiani sta per passare dal 45,6 al 47,3 per cento (dati Eurostat).
La lista delle promesse disattese e oggi riproposte è lunga. Chi ricorda gli enti inutili da abbattere? E la cancellazione delle province, pomposamente promessa durante l’ultima campagna elettorale ma resa effettiva solo dal governo Monti? Poi ci sono i capitoli delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni (non è stato proprio il Cavaliere a criticare la vendita francese di Alitalia?). I risvolti sono spesso paradossali. Tanto che le liberalizzazioni in Italia portano il nome di Pierluigi Bersani. All’epoca ministro dello Sviluppo economico, oggi leader del Partito democratico. Liberalizzazioni poco incisive, forse. Ma di centrosinistra. Stessa sorte per la riduzione dei costi della politica. Un provvedimento portato avanti dal Parlamento sotto il governo Monti. Approvato da una maggioranza di larghe intese, dato che nessuna coalizione – per prima quella berlusconiana – era mai riuscita a riformare il capitolo.
Niente rivoluzione. Berlusconi e il suo colbertista e protezionista ministro dell’Economia non ci sono riusciti. D’altronde Giulio Tremonti era lo stesso che proponeva di chiudere le frontiere per proteggere il mercato italiano ed europeo dall’invasione cinese. Un progetto più che legittimo, intendiamoci. Ma certo non in linea con il sogno liberale annunciato da Silvio Berlusconi.
E sì che le ampie maggioranze parlamentari del 2001 e del 2008 avrebbero permesso anche le riforme più incisive. Ogni volta, una nuova scusa. Nel 1994 la rivoluzione fermata dai giudici rossi. Sette anni dopo dall’attentato alle Torri gemelle di New York. Poi dalla crisi finanziaria internazionale (che pure Berlusconi ha a lungo smentito). Una rivoluzione sconfitta dal destino, ma anche dai suoi nemici. Le forze politiche conservatrici, le corporazioni, i gruppi di potere che negli anni hanno bloccato nella palude romana l’azione del Cavaliere. Così raccontano suoi estimatori, almeno.
Adesso il nuovo Berlusconi ci riprova. Come se nel frattempo nel Paese fosse cambiato qualcosa. Come se non ci fossero nuove giustificazioni da adottare in caso di un altro fallimento. A diciotto anni di distanza torna in campo il Cavaliere liberale. E antidemocratico. Che fine hanno fatto le primarie del Popolo della libertà istituite formalmente nell’ultima riunione del direttivo pidiellino?