Paula Hays Harper
(17 novembre 1930 – 3 giugno 2012)
Critica d’arte americana, originaria del Massachusetts, già cattedratica all’Università di Miami, e studiosa, in particolare, del padre degli impressionisti Camille Pissarro. Un uomo cordiale e generoso a cui, fra l’altro, piaceva così tanto Van Gogh, da scoprirlo e incoraggiarlo. A Paula non piacevano sostanzialmente due cose: il suo cognome da ragazza – Fish, cioè “pesce” – e soprattutto il modo con cui la storia dell’arte, e i mondi dell’arte contemporanea, ignoravano le donne. Per cui, dopo essersi sposata due volte, senza figli, – con i signori Hays e Harper – ne assumeva stabilmente i cognomi per farsi conoscere nella sua battaglia principale e femminile.
Non le dispiaceva affatto il termine “femminista”: da un bel po’ di anni è stato ridotto a termini medi, ma nei primi anni Settanta significava una fila di azioni pionieristiche, e concrete. Paula, a 40 anni, a Los Angeles, ne ha messo in piedi una, e una prima di tante altre, che “avrebbe cambiato tutto” (secondo il commento del New York Times): rappresentare l’eterna “domesticity”delle donne in forma d’arte, e di denuncia, e con molta ironia pop. Il gruppo di lavoro, all’interno del California Institute of Arts, comprendeva 21 studenti e due artiste di nome Judith Chicago e Miriam Shapiro. Proprio Judith, molti anni dopo, avrebbe ritratto l’idea di Paula con la massima riconoscenza: «Voleva che le artiste donne avessero successo e fossero riconosciute nella storia».
Una casa in rovina di Hollywood – trasformata in un luogo di performance, di mostre, e di show vari – diventava la “Womanhouse” per eccellenza rappresentativa: si vedeva, in un misto di sociologia e di gesto beffardo, il femminile classico alle prese con se stesso, cioè una donna di fronte allo specchio che si rifaceva a ripetizione il make-up, oppure la signorina Chicago che usava i sanitari e i deodoranti intimi. In una stanza tutta sua, chiamata “Menstruation Bathroom”. Mai, prima di quei giorni, si era vista un’ esibizione artistica e variata “per le donne”, capace di raggruppare una folla così densa di donne. Che interpretavano, o che erano pubblico.
Paula e le altre usavano gli stereotipi – o gli usi millenari della femminilità eccitante e rinchiusa – come una testa di turco: per sfondare. Che cosa voleva dire, parlando d’arte, e agendo in quel mondo? Che – alla faccia della potenza e della forza creatrice maschile – le donne, truccate o meno, sapevano da sempre dipingere e scolpire, e poi anche fotografare, girare film, video, eccetera. Che citare, o scrivere libri saltuari, sulla Gentileschi, la Carriera, la Kahlo, o altre storiche artiste-donne, restava un gesto accademico, e un’indagine vagamente eccitante su un fatto comunque raro. Che le donne nominate nelle storie delle arti, erano per lo più allieve, mogli, o amanti, dell’ “artista”. Grande e uomo.
Sfondare con il “femminismo” in quel campo, significava soprattutto procedere a valanga, e con un certo acume in avanti. Il New York Times – ricordando “Womanhouse” – ha raccontato bene che cosa sarebbe successo dopo: «Quell’idea ha dato nuovi motivi, e ritmi, alla pittura, alla scultura, alla fotografia, alle performance, alla video art, e alle installazioni. Smascherando anche le barriere fra arte “alta” e “bassa”, e facendo sempre più posto alle arti folk, outsider, e non occidentali. Per non parlare della cosiddetta “women’s art”».
In una ventina d’anni – o anche meno – da allora, lo sfondamento sarebbe diventato un nuovo stato delle cose: solo una mente razzista-pop potrebbe, oggi, fare delle pulci “di genere” alla quantità di artiste che creano, girano, espongono nel mondo globale. Ma già nei primi anni Ottanta Paula Hays Harper poteva dirsi riconosciuta nella storia dell’arte, e anche “di successo”, come si augurava: era la critica del Miami Herald, sarebbe diventata consulente di musei e gallerie fra i più importanti, avrebbe scritto cataloghi e saggi (in particolare su Christo, il grande artista impacchettatore), e, nel 2007, il Guggenheim di New York la invitava a parlare a un convegno dedicato alla sua vita, e al suo lavoro. La sua biografia su Camille Pissarro, del 1980, è giudicata la più esauriente e completa sul “padre” (così lo chiamava Cezanne) dell’impressionismo.
Un uomo decisamente aperto, per i suoi tempi: sua moglie Julie Valley era la cameriera di sua madre (avrebbero avuto sette figli), non dipingeva, e sarebbe stata un “soggetto” privilegiato del marito. È certo che Paula – biografa anche di lei – non la considerasse semplicemente la moglie dell’artista.
Ghazala Javed
(1 gennaio 1988 – 18 giugno 2012)
Cantante pakistana, molto popolare e conosciuta anche fuori dal suo Paese, a Dubai in particolare. Cantava in pashtun, e aveva iniziato a 16 anni come ballerina. In una città – Swat – dove i talebani erano potenti e guerreggiavano contro l’esercito regolare. Costringendo molte persone – singoli e gruppi familiari – a cambiare luogo. Ghazala e i suoi avevano scelto Peshawar, dove si sentivano più sicuri: lei, soprattutto, in un’arte e in una carriera libere, o laiche. È morta a 24 anni, insieme al padre, freddata in un agguato, mentre usciva da un salone di bellezza nel centro della città: sei colpi di pistola contro di lei, e un proiettile in testa per uccidere il padre.
Diversamente dalla prima ipotesi impacchettata dagli inquirenti – «omicidio per probabili motivi personali» – la maggior parte dei giornali ha sintetizzato la verità: «assassinio di una donna libera». Ghazala aveva personalmente seguito la sua strada, sia in privato, sia di fronte a milioni di persone che amavano le sue canzoni e le sue scelte. Era nata nell’ultimo anno – 1988 – di una dittatura militare, e del potere di un generale – il feroce e impomatato Zia–ul–Haq – che aveva, fra l’altro, reintrodotto i codici islamici come forza di legge. Nel Paese che sarebbe stato, per poco, guidato da un simbolo femminile di lotta e di emancipazione: cioè Benazir Bhutto, la prima donna premier di un Paese musulmano, molto ammirata e molto discussa, e, alla fine, ammazzata in un plateale attentato il 27 dicembre 2007.
Ghazala – una ragazza di una bellezza orientale immediata – era per i pachistani una specie di Mina: con 20 album già registrati, la cantavano per la strada e nei bar, la riconoscevano sia col foulard che con i capelli liberi, le chiedevano autografi, seguivano le sue trasferte. Con lei, il pashtun era diventato anche lingua, e musica, pop.
Nel 2010, a 22 anni, si era sposata con un uomo d’affari – Jahangir Khan – salvo scoprire, poco tempo dopo, che lui ne aveva un’altra. Un’altra moglie, non un’amante. Ognuno dei due aveva un nodo da sciogliere: per Jahangir, e per la legge pakistana, era normale avere fino a quattro mogli, ma era altrettanto scontato che ognuna di loro regolasse la propria vita sui desideri del marito. E Jahangir aveva provato a proibire a Ghazala il canto e la carriera.
Per lei – di fronte a un marito di quel genere, così ferocemente scontato in tutto – era naturale andarsene, chiedere il divorzio, e, più libera di prima, continuare a lavorare. Il 12 ottobre 2011, i giudici – musulmani – del tribunale civile di Ashgar (sempre nella provincia di Swat) le avevano dato ragione: una sentenza di divorzio, con relative motivazioni a favore di lei, che aveva fatto la prima pagina.
Anche perché emessa da una corte del Nord-Ovest pachistano, dove l’accanimento integralista mescola, senza troppe distinzioni, le abitudini private, le autorità civili e militari, e la penetrazione talebana. L’ultima scena, e i suoi particolari – il salone di bellezza, i 24 anni di lei, il padre che l’accompagna per non lasciarla sola, gli assassini con le facce coperte che sparano e volano via con i motorini, la polizia che fa quadrato dietro le più burocratiche dichiarazioni – potrebbe essere il finale di una tristissima ballata.
È probabile che in Pakistan Ghazala Javed diventi un altro simbolo femminile di lotta e di emancipazione. Ma intanto l’hanno ammazzata: perché aveva mollato un marito spregevole e perché cantava molto bene. Nella lingua dei suoi: salvata, e rilanciata nel mondo.
Gitta Sereny
(13 marzo 1921 – 14 giugno 2012)
Giornalista angloaustriaca, di 91 anni, vissuta a Vienna, in Inghilterra, in Francia, e negli Stati Uniti. Diceva, una decina d’anni fa, in un’intervista: «Sono molto ottimista. Sul mondo, sulle persone. Penso che la maggior parte della gente sia buona». Molto brava – scriveva benissimo – e acuta, ha avuto un bel coraggio. Anzi, il coraggio di una curiosità specifica: farsi raccontare da diverse variazioni del peggio (criminali nazisti, serial killer nel quotidiano, e altro) i loro passaggi. Per provare a capire perché fossero arrivati a tanto. Non alla banalità del male, ma alla specificità dei mali. E, quindi alle loro origini. In tre suoi libri principali, tre “peggiori” – diversi fra loro – le hanno parlato sapendo, o almeno intuendo, che Gitta stava facendo della psicobiografia. Erano il nazista Franz Stangl – responsabile di 900 mila morti nei campi di Treblinka e Sobibor –, il nazista architetto, e dandy, Albert Speer – responsabile degli ultimi armamenti, e del lavoro coatto, del Terzo Reich – la signora Mary Bell, inglese, che, nel 1960, aveva assassinato due ragazzini.
I libri di Gitta Sereny sono importantissimi per capire l’essenza del nazismo e della sua seduzione, e la naturalezza con cui quello schifo storico avrebbe portato alla Shoah, e a una guerra con 50 milioni di morti. Sono anche specifici su un punto che non ha a che fare solo con la Storia: la scomparsa della “coscienza”, oppure il suo azzeramento ab ovo, da molto presto in un soggetto, in una vita.
Cinque giorni, nel 1945, nell’aula del processo di Norimberga, le avevano permesso di vedere Albert Speer: come non si difendeva, e, insieme, come si giustificava, da “ammaliato” da Hitler, quasi come una spugna incapace di discernere. Nel gran libro-intervista In lotta con la verità (Rizzoli, 1995) Gitta Sereny spendeva una decina d’anni insieme a Speer e a sua moglie (incontri precisi, organizzati, dopo la sua liberazione da Spandau, dove aveva scontato 20 anni) per arrivare a una verità cosciente, e sostanziale: Speer sapeva della Soluzione Finale, con la coscienza non toccata. E infatti, a Norimberga, dove si era dichiarato “ignaro”, si aspettava il capestro. O ne aveva molta paura.
Negli ultimi anni della sua vita, raccontava anche di incontri, e di scambi, con un prete, un pastore, un rabbino. Gitta si è sempre chiesta anche se fosse possibile “un genuino rimorso”, o addirittura la possibilità di una “redenzione”. Quando si trovò di fronte a Franz Stangl – un boia completo e convinto – ci mise 60 ore di intervista per sentirlo ammettere, alla fine, di avere fatto tutto quello che aveva fatto. Per aver «adempiuto ai compiti».
Nessun rimorso, un caso di coscienza inesistente, anzi «pulita» secondo lui: era uno scampato alla condanna a morte, la Chiesa lo aveva aiutato a finire, con i suoi, in Brasile, e solo dopo l’estradizione in Germania era stato processato e condannato all’ergastolo. Sarebbe morto 18 ore dopo l’ultimo incontro con Gitta.
Quanto a Mary Bell, e al suo “caso”, Gitta raccontava le fonti originarie del crimine, come fanno in genere, nelle aule di giustizia, i più bravi avvocati per proporre la forza delle circostanze attenuanti: Mary era cresciuta, ed era stata abusata, dall’età di quattro anni, dai clienti di sua madre, una prostituta. Oppure, più grande, forzata da sua madre a prostituirsi a quegli stessi clienti. Dopo aver indagato su casi così diversi, ci si può permettere, a 80 anni, di dire che la maggioranza della gente è buona. «La maggioranza», non tutti. Gitta Sereny è vissuta fino a 91 anni, lanciando un’ipotesi. Derivata, in fondo, da tutte quelle ore, e quegli anni, passati ascoltando le minoranze del «peggio».