Uno che lo conosceva bene lo dice senza mezzi termini. «Massimo dai magistrati non ci sarebbe mai andato, si è portato un po’ di segreti nella tomba…». E allora bisogna partire da questa considerazione un po’ complottista, nello stile di prima repubblica che già assistette alla morte di Raul Gardini nei giorni tormentati della tangente Enimont, per capire quanto possa incidere per il sistema economico-politico italiano la scomparsa di Massimo Pini, presidente di Milano Assicurazioni, società del gruppo Premafin-Fondiaria Sai. Morto domenica 5 agosto, senza che nemmeno un’agenzia di stampa desse uno straccio di notizia. Solo il Corriere della Sera ci ha scritto un articolo a pagina 16 sul quotidiano di oggi, mentre domani alle 11 sono previsti i funerali nella Chiesa di San Babila a Milano: sui partecipanti il riserbo è massimo.
Eppure Pini, ex Psi, craxiano di ferro poi finito in Alleanza Nazionale con Ignazio La Russa, ricorda qualcuno, era un uomo che contava molto, «di peso» per le scelte del sistema del potere politico e finanziario del bel Paese. Da più di trent’anni tirava i fili nelle dietrovie dell’establishment, di cui conosceva bene i meccanismi, senza mai esporsi in prima persona. Più che mai determinante per le nomine nelle grandi banche d’affari e nelle aziende di stato, dalla Comit fino a Finmeccanica. «Un “grand commis” più che un boiardo», annota chi lo ha seguito in questi anni, strenuo difensore del potere in tutte le sue raffigurazioni, dal leader socialista Bettino Craxi al banchiere Enrico Cuccia fino a Cesare Geronzi. Per don Salvatore Ligresti, patron di Fondiaria Sai nell’ultimo decennio, era il consigliere fidato, l’uomo che curava le relazioni che contano con la politica e le istituzioni e anche compagno di passeggiate, e frugali cene nella casa milanese dell’ingegnere di Paternò.
Da pochi giorni, Pini era indagato per falso in bilancio su Fondiaria Sai, di cui è stato consigliere di ammministrazione per diversi anni. In Piazzetta Cuccia sapevano di poter contare su di lui affinché Ligresti assecondasse il disegno di Mediobanca per “salvare” Fondiaria Sai, costretta alle nozze con Unipol. Lo aveva fatto dopo che la ricerca di soluzioni alternative, da parte della Banca Leonardo di Gerardo Braggiotti, consulente dei Ligresti, era stata bloccata dal “sistema Mediobanca”.
In via dei Filodrammatici Pini ci era entrato anche grazie Ligresti. Certo, era un fedelissimo di Craxi, ma era stato don Salvatore a presentargli il “fondatore”. E lui si era dimostrato un valoroso difensore di Mediobanca negli anni in cui l’ex presidente del Consiglio Giulio Andreotti colpiva il cuore della finanza meneghina dai palazzi romani per ridimensionarla. Pini lo ha raccontato in un saggio per Nuova Storia Contemporanea alla fine degli anni ’90, raccontando di «quella volta che Craxi si schierò con Cuccia per salvare Mediobanca». Il divo Giulio puntava a farsi rappresentante della classe imprenditoriale italiana, ma Pini fu uno delle teste di ferro di quell’asse tra socialisti, liberali e repubblicani che si era venuto a creare nella giunta Iri.
Del resto, questo imprenditore nato a Udine nel 1937, editore con SugarCo, poi in Rai all’inizio degli anni ’80, quindi voluto nel 1986 da Craxi nel comitato di presidenza dell’Iri di Romano Prodi – con l’obiettivo di fare il cane da guardia al professore bolognese che lo definiva “il mio principale avversario” – ha sempre saputo tessere con abilità le fila del potere. Come quella volta che insieme con don Salvatore, su mandato di Craxi, riuscì nella nomina di Luigi Fausti in Comit nel 1990. Pini è stato anche consigliere dell’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato per le privatizzazioni. Ha avuto sempre un rancore profondo nei confronti della magistratura, aumentato dopo gli anni di Tangentopoli.
Per questo, secondo chi lo ha frequentato spesso in questi mesi, Pini non si sarebbe mai fatto interrogare dai magistrati. Nella biografia su Craxi (Una vita, un’era politica, Mondadori), l’ex rappresentante dei Ligresti nel patto di sindacato di Rcs, aveva dedicato ampio spazio alla riabilitazione di Bettino. «Uno dei politici più diffamati della nostra storia», disse in un’intervista diversi anni fa, citando la bufala della fontana di piazza Castello spostata ad Hammamet, storia nata da un errore di comunicazione dell’allora pm Antonio Di Pietro: la fontana e il senatore Fontana.
Della magistratura Pini non si fidava per niente. Negli ultimi tempi, chi lo aveva sentito, sostiene di non averlo trovato così giù di corda. Certo, c’era stata una brutta malattia negli anni passati, c’erano le cure, ma a giugno si era persino candidato come consigliere indipendente del consiglio di amministrazione della Rai. E poi stava avviando un nuovo progetto politico da portare avanti. Lui, che aveva preferito La Russa e An alla Forza Italia di Silvio Berlusconi, ma forse solo per l’appartenenza di Ignazio al noto clan di Paternò dei Ligresti, ha continuato in questi anni a frequentare il mondo del socialismo meneghino.
Stava provando a rilanciare il quotidiano L’Avanti, devastatodalla gestione del faccendiere Valter Lavitola, insieme con il professor Francesco Forte, firma di punta del Foglio di Giuliano Ferrara. Aveva collaborato al progetto della Grande Milano di Critica Sociale. Burbero, ex marito di Margherita Boniver, negli anni ’80 si presentava spesso con un papillon al collo. Aveva perso il suo carattere rude una volta sola, quando Geronzi era stato nominato presidente di Mediobanca: un uomo di potere dentro la più importante banca di sistema.
@ARoldering