Dominic Mintoff
(6 agosto 1916 – 20 agosto 2012)
Maltese, nato nella cittadina di Cospicua, quando l’isola era una delle fortezze imperiali britanniche del Mediterraneo. Lì la Corona possedeva tutto e dava lavoro a tutti: si poteva diventare anche cuochi della Royal Navy, il mestiere del padre di Dominic. Si poteva anche affascinare romantiche donne inglesi: un successo di Dominic giovane che, infatti, da studente d’architettura e ingegneria civile a Oxford, riusciva a sposare Moyra De Vere Bentinck, baronessa con ascendenze olandesi e discendente, ai lati, di Lord Bentinck. Lì, la bellezza dei luoghi è tuttora evidente, mentre quella della storia coincide con tutti i passaggi degli altri sull’isola: fenici, greci, romani, arabi, cavalieri di San Giovanni, francesi di Napoleone, e, alla fine, britannici in espansione mondiale. Dal 1814.
Lì – dove ha vissuto anche Caravaggio, e dove un cognome diffuso è Azopardi – far politica nel secondo dopoguerra significava darsi combattivamente un nome (cioè uno Stato) a sé stante, oppure evolversi da «maltesi» nell’ambito elegante e protetto del Commonwealth e della Corona britannici. Mintoff, detto «Dom» – detestato da chi notava in lui una vera rozzezza e un po’ di tirannismo, e adorato da chi lo considera il padre del Paese – è stato un lungo primo ministro in due mandati (anni Cinquanta e anni Settanta), era socialista (un tipo laburista molto leftist e molto inglese), e ha sfruttato un classico errore delle potenze coloniali, quando si trattava di guardare in avanti. Quando cioè, prima delle rivolte indipendentiste, si poteva accordare progressivi strati di autonomia, creando amministrazioni e cittadinanze sempre più miste e sempre più libere.
È quello che è sfuggito ai francesi in Algeria, negli anni subito precedenti la rivolta del 1954. Gli inglesi a Malta hanno avuto un problema diverso: nessun fatto sanguinoso, ma almeno l’obbligo di ascoltare chi proponeva il perfezionamento di un dominion strategico (posizione mediterranea dell’isola, anticamera galleggiante del Medio Oriente, meridionalissimo pezzo d’Europa), tenendo saldi i legami e gli interessi con Londra. Era quello che Mintoff aveva in mente (una specie di status nordirlandese, con rappresentanza a Westminster) e che a Londra veniva rifiutato.
Era la transizione che nel 1964 il partito nazionalista maltese al governo (l’avversario accanito di Mintoff e del suo laburismo d’assalto) riusciva a concordare con gli inglesi, mantenendo Elisabetta II regina, un governatore residente, e un bel po’ di interessi protetti (finanziari, di investimenti privilegiati, di interscambi commerciali). Era il modello educato e graduale che «Dom» ha spezzato, una volta ridiventato premier, e dopo una campagna scatenata, e quasi da terzomondista non allineato, dove si urlavano queste cose: l’ ostilità «colonialista» verso l’identità maltese, la connivenza e i privilegi della Chiesa cattolica (è l’isola dei «Cavalieri»), l’asservimento al blocco occidentale, eccetera.
Nel 1974, con Mintoff premier, l’isola diventava una repubblica (restando astutamente nel Commonwealth), e pochi anni dopo, anche la base inglese della Nato veniva licenziata: con una perdita tonda di 60 milioni di dollari d’affitto, e una conseguente voragine nel bilancio statale dell’isola. Restava, come sempre, la risorsa di un un turismo splendente, e si aggiungevano, anche con un po’ di «mezzi», i nuovi alleati di Dom Mintoff: il colonnello Gheddafi, i cinesi, Fidel Castro. Ognuno dava quello che poteva, ma era soprattutto la nuova pubblicità geopolitica di quel pezzo di Mediterraneo che faceva la differenza: Mintoff ricevuto all’Avana, a Pechino da Mao, e corteggiante Tripoli.
Trionfava dicendo «nothing is British anymore» ma sarebbe riuscito, fino al 1984, a fare della propria «neutralità» una clausola contrattuale da giostrare un po’ con tutti: l’Italia gli elargiva 95 milioni di dollari da distribuire in un arco di cinque anni, i cinesi gliene offrivano 40 a patto che tenesse l’Urss fuori dai porti di Malta (almeno stabilmente), e la cooperazione con gli Stati Uniti procedeva abbastanza bene, soprattutto attraverso accordi commerciali.
Dopo il 1984, «Dom» si auto-accantonava (anche perché aveva perso le elezioni) rimanendo dentro la realtà e diventando fuori moda: era stato la rappresentazione di un «British subject» periferico che non ne voleva più sapere della madre, di un aggiornamento perfezionato del cosiddetto carattere levantino, di un ex studente di Oxford che parlava un inglese coltivato passando, se era il caso, alla lingua maltese più slang, di un nazionalista laburista capace di navigare, come un attore degli ammutinati del Bounty, nell’ultima guerra fredda dislocata nel Mediterraneo. Oggi Malta è Europa e ha l’euro: forse è un po’ meno mediterranea, o levantina, ma quando Dom Mintoff è morto a 96 anni lo ha riconosciuto come un padre della patria.
Candice Cohen-Ahnine
(1977 – 20 agosto 2012)
Una donna francese, ebrea, di 35 anni, molto bella – di uno splendore bruno – a cui sono successe queste cose. Uno sfortunato viaggio di studi, a 18 anni, in Inghilterra, il rapimento di sua figlia da parte del padre (un musulmano con molto potere di Stato), la segregazione in un palazzo di Riyad, la scrittura di uno straziato libro di denuncia e di racconto nell’ “inferno saudita” -“Rendez-moi ma fille”, Amazon.com, 2011 – la morte, a Parigi, dopo essere caduta dalla finestra del quarto piano del suo appartamento.
Non si sa che cosa abbiano raccontato a sua figlia Haya, di 11 anni: sta crescendo “come una principessa” a Riyad (secondo la violenta volontà del padre), e, per questo, si arriva a immaginare che le abbiano parlato di “circostanze misteriose”, come fanno, in genere, le burocrazie poliziesche, o i giornalisti burocratizzanti. Ma possono anche averle detto che la madre si è ammazzata: è, per ora, la versione pubblica, e, in seconda battuta, servirebbe anche a dire alla bambina che è stata lasciata definitivamente sola, e nel più aggressivo dei modi.
Da una madre lontana, e non musulmana. Si aspettano, naturalmente, l’autopsia, e un’inchiesta, ma intanto, di getto, il coautore di quel libro – Jean-Claude Elfassi – dice che l’ipotesi del suicidio si riduce a una “tesi impossibile”. Perché – spiega alla televisione e alle radio francesi – «avevamo quasi raggiunto l’obbiettivo». Avevamo: lei, Candice, il suo avvocato difensore, e tutti gli amici e i sostenitori, Jean-Claude in testa. L’obbiettivo: il rimpatrio di Haya in Francia, dalla madre (con cui era cresciuta fino al 2008), stabilito dal Tribunal de Grande Instance parigino (gennaio 2012) nei confronti del padre, passibile – dopo il “fermo” forzoso e prolungato di sua figlia in Arabia Saudita – di un mandato d’arresto internazionale.
Il padre si chiama Sattam bin Khaled bin Nasser al-Saud: nome calligrafico, timbro di uno dei tanti principi “Saudi” che rendono la famiglia reale di quel Paese una sorta di joint venture omogenea nei suoi caratteri dominanti, anche se diversificata nella gerarchia dei ruoli.
Quei principi sono ovviamente ricchissimi, musulmani sunniti al più denso livello di integralismo, e occidentalizzanti quando vogliono e conviene. Nei piaceri dell’investimento (Wall Street, il real estate alberghiero e delle “dimore storiche” a Parigi, Londra, eccetera, le società tipo Carlyle, insieme ai Bush e ai bin Laden), in quelli della società e del travestimento (quando si mettono in dinner jacket, con i loro baffi o i loro pizzi tinti, sembrano sempre in costume), o in quelli, più pericolosi, della seduzione. Maschile, ogni tanto languida, da “mille e una notte” utile anche per una sola serata, comunque sottolineata dal possesso di uno Stato, di un santuario mondiale, e di “mezzi” da decenni proverbiali.
Sattam, visto nell’unica foto disponibile sui siti, ha anche una faccia gentile, quasi bella: lo si immagina sinceramente connivente con l’amore, o l’attrazione, dell’altra. Lo sarà stato, o sembrato, nel 1998 e negli anni subito successivi, dopo aver conosciuto, una sera in una “boite” di Londra, la diciottenne Candice Cohen-Ahnine: che stava per tornarsene a Parigi, dopo una vacanza-studio canonica, d’estate.
La “liaison amoureuse qui à mal tourné” – come hanno scritto i media francesi – sarebbe stata immediata, coperta, e fertile: Haya nasceva nel 2001, crescendo a Parigi, con la madre, e con ogni protezione economica che arrivava senza avarizie da Riyad. La rottura, nel 2006, derivava da una specie di richiamo della foresta: le regole del clan dei Saudi decretavano per Sattam il matrimonio con una cugina, lui proponeva a Candice di diventare la seconda moglie (convertendosi), e lei non ci stava mettendo il punto alla loro storia.
Le storie più drammatiche dei rapimenti prevedono spesso un inganno preventivo, una bugia meditata: la vittima viene invitata e poi fregata. Nel settembre del 2008, accadde a Candice di lasciarsi convincere a un viaggio a Riyad perché il padre potesse stare un po’ con sua figlia. “L’inferno saudita” sarebbe derivato con questi passaggi: Haya separata subito dalla madre, Candice sequestrata in un palazzo della capitale, previo il ritiro del passaporto. «Sola, senza soldi, senza documenti, torchiata da sevizie fisiche e psicologiche: non avevo neanche accesso all’acqua potabile»: questa era lei nel Paese del padre di sua figlia – e anche di quel principe arabo di cui si era innamorata – così come avrebbe spiegato in un’intervista a “Le Figaro”.
Senza contare la raccomandazione pseudodiplomatica dell’ambasciata francese: restare nel palazzo, e aspettare. Dopo sette mesi di reclusione, avrebbe tentato di fuggire due volte, senza risultati. E con un’accusa minacciosa: di essere un’ex musulmana apostata, cioè convertita all’ebraismo. Un’imputazione per cui in Arabia Saudita si viene ammazzati. O ammazzate.
Finalmente, nel 2009, il Quai d’Orsay e Sarkozy presidente si muovevano, ottenendo il rimpatrio di Candice Cohen-Ahnine. Fra i risultati della successiva battaglia giudiziaria, almeno uno dovrebbe avere il peso di un indizio fondamentale nell’inchiesta sulla morte di Candice: grazie alla decisione del tribunale parigino, aveva ottenuto un “diritto di visita” nel prossimo settembre a Riyad. Avrebbe, cioè, rivisto sua figlia dopo tre anni. Il mandato d’arresto internazionale, ipotizzabile nei confronti di Sattam, ha probabilmente cambiato la posta in gioco. Anche tragicamente. Se è altrettanto ipotizzabile che una donna sola, ebrea, madre di una figlia rapita da uno Stato assoluto, teocratico, e musulmano, possa venire suicidata poco prima di rientrare disperatamente in possesso dei suoi diritti. Di madre e di “cittadina”.