Sir Ray William Whitney
(28 novembre 1930 – 15 agosto 2012)
Raymond, detto “Ray”, deputato tory di lungo corso alla Camera dei Comuni, e poco più che trentenne, negli anni Sessanta. Quando la sua ordinata e un po’ militare carriera – Accademia di Sandhurst e Northaptonshire Regiment – lo avrebbe dislocato in, prima battuta, nel centro di Pechino.
Le vite come la sua si fanno leggere, ogni tanto, per un fatto centrale e inaspettato che le connota: dove il protagonista, in genere non di primo piano – un funzionario d’ambasciata, o un addetto commerciale, o un uomo d’intelligence, o un ufficiale – potrà comunque raccontare qualcosa di storico e di avventuroso. I libri di Conrad, di Maugham, del colonnello Lawrence, e anche di Salgari, fanno spuntare queste persone e questi ruoli come elementi ai lati, ma fondamentali della sceneggiatura.
A Ray Withney, di Northampton, è capitato di servire la Corona come primo segretario all’ambasciata britannica di Pechino. Fin qui, routine, più che letteratura. Il bello sta negli anni di quell’incarico: dal 1966 al 1968. E nel fatto di essere un diplomatico inglese: cioè del Paese che ancora conservava, e molto piacevolmente, la libera colonia di Hong Kong. Che cosa avrebbe visto, senza essere né un reporter, né un politologo, né un fabbricante di fiction? Una roba terremotante, anche nella sua definizione ufficiale: la “grande rivoluzione culturale e proletaria” lanciata dal presidente Mao per ristrutturare il suo potere, facendo astutamente tabula rasa (anche dal punto di vista del marketing ideologico) di centinaia di migliaia di poveri cittadini di ogni età e professione. Quasi un milione di persone.
Sir Ray non ha lasciato memorie, ma immaginandosi nella sua postazione privilegiata – nel quartiere di Sanlitun – si potrebbe costruire un racconto con lui che testimonia della metamorfosi della capitale, dei primi schieramenti di guardie rosse, delle mobilitazioni permanenti, dell’apparire dei dazibao, degli autodafé alla cinese, con gli uomini e le donne d’intelletto atrocemente sbeffeggiati con tanto di orecchie d’asino, sputi, e cartelli autocritici appesi al collo, eccetera.
Ray ha visto tutte queste cose, ogni giorno, essendo uno dei tantissimi inglesi devoti al “service” della Corona nel mondo. Si è trovato, senza prevederlo prima, in uno di quei tifoni della Storia che mettono al mondo, dopo la distruzione, la “novità”. In questo caso, la Cina dilagante di oggi. Pensando alla letteratura del cinema avventuroso, viene in mente il film “55 giorni a Pechino”: dove Ava Gardner, David Niven, Charlton Heston, e altre star, giocano bene la parte degli occidentali blindati nelle loro ambasciate, mentre fuori si scatenano i “boxer”, anche lì astutamente ispirati dallo Stato: a quel tempo la corte e l’imperatrice madre.
Più aggiornato, Ray Whitney, in quegli anni Sessanta, aveva a portata di qualche migliaio di chilometri anche quello che stava succedendo, o che stava perfezionandosi, a Hong Kong: qualche disordine fomentato dai pechinesi e ben controllato dai bobby anglocinesi, ma soprattutto molta vitalità capitalistica (il modello a venire della Cina post rivoluzionaria e postculturale) e qualche invenzione.
Come quel bravo tipo di nome Bruce Lee: inventore di un tipo di autodifesa e anche di un mezzo espressivo capace di controllare i propri limiti. E così, il fortunato Sir Ray si trovò a vivere, nel pieno dei suoi trent’anni, non lontano dal posto giusto, e molto inglese, che metteva al mondo il kung fu.
Prabuddha Dasgupta
(21 settembre 1956 – 12 agosto 2012)
Fotografo, di Calcutta (o Kolkata, il nome ufficiale). Celebre nel mondo, una versione indiana di Helmuth Newton, senza quell’originalità teatrale, ma con un carattere deciso: fare dell’immagine indiana – delle donne, in particolare – qualcosa di lontano dall’ “indianismo” pittoresco (la povertà, la donna in sari, la Ranj, la star di Bollywood eccetera).
Era figlio di uno scultore, aveva studiato storia all’Università di Delhi, era nato neanche dieci anni dopo l’indipendenza indiana, aveva imparato a fotografare da solo, e a 35 anni aveva ricevuto un premio da Yves Saint Laurent. La definizione di “fashion photographer”, e il successo derivato in quel tipo di scelta, è esatta ma limitante. Anche se ha lavorato per Vogue, Elle, GQ, o Harper’s Bazaar, la sua visione, o il suo uso, della “moda” sembra più un mezzo che uno scopo.
Nel caso della donna indiana, un mezzo espressivo per toglierle qualsiasi travestimento, o costume, caratteristico, mostrandola “all’occidentale”, come in una metamorfosi più adatta a far vedere uno splendore indiano in sé evidente. Nel suo libro più celebre – “Women”, del 1996 – le donne indiane, di ogni genere, sono molto belle, sofisticate o semplici, spesso nude: ma non risultano quasi mai né modelle (anche quando lo sono) né signore in posa (anche quando lo sono), né creature indiane in pompa magna occidentale, né testimonial di qualcosa. Non testimoniano niente: possono essere un incrocio di bellezza (anche un po’ ferma nella loro perfezione), o un’immagine di erotismo ben congegnato, ma immediato.
Agli inizi, Dasgupta – come fotografo commerciale – aveva anche lanciato una campagna pubblicitaria di un tipo di preservativi chiamati “KamaSutra”: con due modelle come mezzi di lancio. Poco successo nella campagna, ma molto in quel tipo di preservativo. Anche perché il nome, così indiano, non aveva bisogno di nessun travestimento. Dasgupta aveva tra figlie (avute dalla prima e unica moglie) e viveva a Goa con una modella, che era anche una delle sue “indiane” fotografate. È morto d’infarto ad Alibau Bombay (o Mumbai).
Attesa, di Prabuddha Dasgupta