Irit Rabinowits, «Couple and guitar», 2004, acrilico su tela
Wael Kastoun
(1968 – 2012, ultimi giorni di luglio)
Scultore siriano, di Marmarita, vicino a Homs, e cristiano. Aveva 44 anni, un’espressione intensa, con gli occhiali, e una barba corta, un po’ bianca. Era uno degli artisti più conosciuti di Homs, dove aveva esposto molte volte, in gallerie private: corpi di donna, soprattutto – torsi e cosce – scolpiti nel legno, nel bronzo, e nella pietra. Della sua morte hanno informato pochi siti, in francese e inglese. È uno dei 20 mila, più o meno, assassinati dagli uomini di Bashar al-Assad. Nella strage in corso in Siria, Wael potrebbe venire ricordato come un bassorilievo di quel martirio. Un particolare di un futuro monumento a quelle migliaia di sterminati. Come siamo abituati a vedere, e a memorizzare, in tutti i monumenti dedicati alle Resistenze.
Poche foto, messe in rete, fanno vedere scene di civiltà e di attenzione quotidiana: cittadini di Homs nelle sale di una mostra dove espone Wael Kastoun. Un busto femminile fino alle cosce, tracciato come un’eco della Pietà Rondanini; oppure un’altra donna scolpita, e inclinata sulla destra, e più “cubista”, che potrebbe ricordare le figure anni Venti di Osip Zadkine. In un’altra foto, un altro busto sdraiato viene guardato da un classico pubblico delle mostre: una donna sola che osserva un particolare, affiancata da un ragazzo e una ragazza che parlano.
L’orologio, sopra la porta della sala, è quasi sfuocato, ma, con un po’di sforzo, si puo’distinguere l’ora: le 10, o le 11 e 20. Quei visitatori – presumibilmente tutti siriani – sono l’istantanea di un’epoca contraddittoria e lontanissima, anche se databile a qualche anno fa: cittadini in pace di una dittatura che disprezzava tanto la vita, quanto la voglia di sapere, e di creare, dei suoi cittadini. Il luogo, Homs – o Hims, in arabo – è una città vecchia di oltre quattromila anni, ex romana, ex bizantina, ex mamelucca, celebre per un proliferare di poeti, e di letterati, e – dicono le enciclopedie in rete – per una “vena di pazzia” dei suoi abitanti.
I corpi femminili di Wael Kastoun erano, e resteranno, un’espressione di quella città, ma oggi – in mezzo a 20 mila vittime civili – potrebbero diventare un simbolo di quello strazio: proprio a Homs – la seconda città della rivolta, dopo Dar’aa – un video di qualche mese fa mostrava una cinquantina di donne e bambini massacrati e mutilati dalle truppe “speciali” del dittatore. Wael faceva parte del “Rassemblement des artistes et de créateurs de Syrie”, e per questo è stato ammazzato in questo modo: prelevato da casa sua, detenuto in una delle sedi dei servizi di sicurezza, torturato fino alla morte. E poi – come informa il comunicato dello stesso “Rassemblement” – «il suo corpo è stato trasportato all’ospedale militare della città, e la famiglia, informata, è stata invitata a recuperare il corpo». E infine, Wael è stato sepolto a Marmarita, dov’era nato. Un’ipotetica poesia potrebbe ricordarlo come un’altra vittima della Gestapo: dato che quella sigla, e quei metodi, sono riusciti a travestirsi in altre divise e in altri climi, restando proverbialmente gli stessi.
Maria Emanuele Wettin, margravio di Meissen
(31 gennaio 1926 – 23 luglio 2012)
O Emanuel Maria: questo secondo nome è usato spesso al maschile, ma questo si sa. Nel protagonista tedesco (e poi svizzero) di questi brevi accenni biografici, precedeva un cognome e un’eredità storici: margravio di Sassonia, cioè titolare di un antico trono abolito nel 1918, dopo la fondazione della sfortunata Repubblica di Weimar. Wettin è il cognome del casato, e Meissen è la città celebre, da secoli, per le porcellane. Il margravio è morto tranquillamente, senza figli, a La Tour-de-Peilz, cittadina del cantone di Vaud – Svizzera francofona – fra Vevey e Montreux. Deliziosi (e forse un po’ tediosi) rifugi di grandi vecchiaie: Charlie Chaplin, Vladimir Nabokov, il soprano Joan Sutherland. Il margravio amava la Confederazione, dove risiedeva da oltre trent’anni: ne aveva anche imparato, con molta soddisfazione, la lingua germanofona, lo Schwyzerdütsch.
Il suo breve ricordo può partire da una foto recente, con lui e la margravia – sua moglie Anastasia di Anhalt – di fronte a un busto di Johann Sebastian Bach: una bella istantanea, piena di rimandi alti, dato che Bach – nato ad Eisenach, una delle città margraviali della famiglia – aveva molto lavorato per i margravi di Sassonia e di Brandeburgo, antenati sparsi di Maria Emanuel. La cui vita, lunga e versatile, fa pensare a due Europe molto diverse all’attuale Unione, in crisi di spread, di euro, e di popoli in bilico (gli elleni, gli spagnoli, forse gli italiani).
Un’Europa, la prima, di principati tedeschi e di corti che assoldavano geni, soprattutto musicali: Bach, Haendel, Mozart, Haydn, Boccherini, eccetera. Quel XVIII secolo senza diritti dell’uomo, ma ancora estraneo alla grippe nazionale, e poi nazionalista. In quell’Europa, fino ai due secoli successivi, la casa di Sassonia – nei suoi molti rami – avrebbe offerto re, principi e principesse consorti, con relative costituzioni (non sempre) a Paesi già solidi o di nuova formazione: il re dei belgi è tuttora Sassonia Coburgo Gotha, come anche Simeone, ex zar ed ex Primo ministro dei bulgari. Senza contare, della stessa famiglia (anglicizzata in Windsor) la vecchia Gran Bretagna del Giubileo elisabettiano e delle Olimpiadi in corso.
L’altra Europa – dove Maria Emanuel è cresciuto a suo rischio – è stata modernissima, ipernazionalista, e ha fatto schifo, in gran parte: il continente nazista, nazificato, massacrato. Ma, alla fine resistente, in ogni senso. A 17 anni Maria-Emanuel – nato in un castello bavarese, figlio dell’ultimo re sassone e di una Thurn und Taxis – realizzava di odiare Hitler e il suo regime, e veniva, per questo, arrestato con l’accusa “di alto tradimento”. La condanna a morte di un tribunale nazista veniva sostituita, all’ultimo momento, con dieci anni “e mezzo” di galera. Era il settembre del 1944 (pochi mesi dopo il complotto contro Hitler, e la strage derivata di alti ufficiali, tutti impiccati o fucilati), ma il giovanissimo margravio l’aveva scampata. In tempo per scrivere, dalla prigione a un cugino, poche parole molto mature per un quasi diciottenne: «Questo maledetto Reich sarà annientato l’anno prossimo». In tempo anche per intravedere, un po’ a sue spese, la fisionomia di un’altra Europa: dopo la liberazione del 1945, Maria-Emanuel si rifugiava a Potsdam (cioè attaccato a Berlino) da amici, ma intanto arrivavano i russi, occupavano il nordest tedesco, ed espropriavano quel poco di feudi sassoni e della Slesia rimasti agli ex margravi ed ex re.
Ma quel giovane Wettin, ormai senza un soldo e un bene, e trasferito a Monaco di Baviera, aveva colto dalle sue stesse vocazioni (l’arte, la cultura, e una certa capacità finanziaria) i punti forti, o le essenze, di un’Europa che, a tappe faticosissime, stava cercando di unirsi. Negli anni Cinquanta – quelli della Ceca, della Cee, dell’Euratom, dei trattati di Roma, ma anche della nascita della Pop Art, e della Scuola musicale di Darmstadt – il margravio di Sassonia e Meissen avrebbe fatto il pittore, il grafico, e si sarebbe appassionato di stampa e di editoria. E tutto questo, spostandosi in Svizzera, dal 1967. Scegliendo, cioè, il Paese più “extraeuropeo” dove vivere in Europa. E anche facendo bene i suoi mestieri dell’età adulta: il banchiere, e il mecenate. Non si sa cosa pensasse dell’attuale crisi dell’euro e dell’ “unità” alla cui nascita aveva assistito, ma è certo che i pensieri e le arti europee dei tempi andati erano per lui il mastice di base per tenere insieme 25 Paesi che si erano massacrati per secoli. D’altronde, ai tempi dei margravi di Sassonia, di Brandeburgo, e di Meissen, fra una Guerra di successione e un’altra di sette o più anni, si trovava sempre il tempo di capire chi erano Bach, Haendel, o Gluck, e di elargire committenze derivate.
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