Quella dell’Isola delle rose, la piattaforma di due piani eretta nel 1968 a largo della costa riminese dal quarantatreenne ingegnere Giorgio Rosa, dopo anni di lavori e tentativi camuffati da esperimenti, è una storia curiosa, eccentrica, molto seria, dove anche i fronzoli hanno il senso pratico del suo demiurgo. L’isola che costò tempo e denaro per durare soltanto cinquantacinque giorni rischia ora con il romanzo di Veltroni di diventare una favola, passando dall’avventura di un’estate al suggello dell’illusione perduta e dell’occasione mancata. Persino di un 1968 diverso dai soliti schemi, e quindi va dato merito a Veltroni, scrive Battista sul Corriere, di aver sottratto all’oblio il ricordo dell’Isola, restituendo nel libro «l’atmosfera di un ’68 esistenziale così diverso dagli stereotipi».
Ad anticipare in modo esauriente il romanzo di Veltroni era stato però due anni fa il documentario Isola delle rose, Insulo de la rozoj – La libertà fa paura pubblicato nel 2010 da NdApress. Un film dettagliato e battagliero, diretto da Stefano Bisulli e Roberto Naccari e scritto dai due registi con Giuseppe Musilli e Vulmaro Doronzo (con due ore di interviste extra e un libro di 80 pagine con foto inedite), ospite di numerosi festival internazionali del cinema e che in Italia è stato recensito dal Resto del Carlino, dallo stesso Corriere e dal Fatto Quotidiano. Anche nel racconto per immagini la retorica non manca, ma il bersaglio sono le istituzioni colpevoli di non aver rispettato le acque extraterritoriali dove lo scaltro Rosa aveva posato i piloni.
Quello che però racconta meglio il film, diversamente da Veltroni, è la storia di un Fitzcarraldo italiano, il bolognese Rosa, ex soldato repubblichino, poi ingegnere e perito edile per il tribunale di Bologna, ossessionato e pignolo, ottimista e sbrigativo. Per Veltroni L’isola delle rose è un romanzo di formazione, mentre Rosa invece è un uomo già adulto: si laurea a 25 anni, si sposa a 35 per fondare con la moglie la società Spic con cui dare inizio ai lavori nel 1964. Di proposte bislacche la capitaneria di Rimini ne riceve ogni giorno. Quella di Rosa si ispira alle piattaforme che va piantando in mare l’Eni. La sua velleità politica rivela subito un intento pratico: extraterritorialità fiscale per qualsiasi attività, il vezzo di decretare uno stato indipendente con tanto di francobolli rivenduti però a peso d’oro a curiosi e collezionisti, e una costituzione in esperanto per non perdere tempo con la babele dei turisti della riviera. Più che una comune, l’isola è un paradiso spartano di 400 mq per una giovane coppia riminese, Franca Serra e Luciano Ciavatta, lei disoccupata, lui precario, genitori di una bambina di due anni rimasta però in città, e per l’uomo di fiducia di Rosa, Pietro Bernardini, a fare da custode. Sarà Franca Serra quarant’anni dopo a parlare di occasione perduta e sogno di una vita infranto, probabilmente perchè appena ventenne il suo matrimonio naufragherà dopo l’esperienza dell’Isola, ma è in questa confessione sentimentale che trova spazio la vena del romanziere.
Nel romanzo la figura dell’ingegner Rosa è scissa in tre ragazzi, giovani, timidi e progressisti, amici dai tempi della scuola, il periodo in cui si cullano i sogni, come vuole un facile mito narrativo. In passato l’ha usato anche Michele Placido per la trasposizione di Romanzo Criminale, tradendo la forza del libro di De Cataldo. L’intenzione di Rosa è di vendere souvenir, aprire un ristorante bar, prendere il sole in piena autonomia fiscale: non è Cuba né la Giamaica, piuttosto il riferimento più vicino è San Marino. Non è così per Veltroni. La piattaforma creata oltre le acque territoriali per liberarsi dalla burocrazia e fare soldi col turismo tedesco (nel 1968 un milione di turisti affolleranno la Riviera romagnola) diventa «un’oasi di libertà da edificare ex novo, dove discutere liberamente di arte e di letteratura, suonare e ascoltare liberamente la musica, praticare liberamente la danza, o la pittura, o una qualunque attività creativa o intellettuale, lontani dalle regole e dalle convenzioni asfissianti della terraferma». Dove sono gli abitanti di questa comunità in fermento? Non si sentiranno soli quei pochi ragazzi coinvolti nel progetto?
Ci vogliono cinquanta pagine di romanzo per arrivare a scoprire l’esistenza dell’isola, prima però l’autore dissemina le figurine del suo pantheon culturale, ma l’album finisce per assomigliare a un product placement della fantasia. L’isola va popolata con la meglio gioventù, Veltroni vuole portare un’intera orchestra generazionale sopra un trampolino estivo con un’avvertenza: non esiste spazio al di fuori della cultura, solo nell’arte esiste la comunità. Insomma non c’è posto per i rudi pionieri del Klondike, e quindi non hanno nessun fascino i cumuli di bollette e ordini firmati da Rosa per avere tutto in regola. Il vero abuso edilizio lo fa lo scrittore, protetto dal nume tutelare del sognatore Fellini.
I giovani protagonisti del libro guardano altrove, hanno una formazione letteraria perfetta: letture di Jack Kerouac e Herbert Marcuse, Cesare Pavese e Pier Paolo Pasolini, Carlo Emilio Gadda e J.D. Salinger, ovviamente senza fare la gita a Chiasso evocata da Alberto Arbasino nell’“Anonimo Lombardo” che è del 1959. Se c’è un dubbio esistenziale è tra il poster di Tenco e il libro della scuola di Barbiana. L’attualità è nota: si parla della morte di Martin Luther King e del Che.
Nell’aria c’è sempre un jukebox pronto a sottolineare gli stati d’animo, se non è Penny Lane sarà Ruby Tuesday. Intorno l’umanità funziona come un orologio di Cinecittà: «Una ragazza riminese danzò lieve, davanti ai ragazzi estasiati, sulle note della passerella finale di ‘Otto e mezzo’ e un giovane con i capelli lunghi e una maglietta dai colori psichedelici recitò a memoria Kerouac, Ferlinghetti e Allen Ginsberg per poi finire, inaspettatamente, con il ‘Congedo del viaggiatore cerimonioso’ di Giorgio Caproni». Jukebox che nel romanzo diventa naturalmente una radio libera, di cui però nel documentario non c’è traccia.
Degli operai che costruiscono l’Isola non si sa nulla. Viene in mente Clerks, l’esordio di Kevin Smith, quando uno dei due commessi si chiede a chi fosse mai importato nel Ritorno dello Jedi della sorte degli operai della Morte nera. Il documentario racconta di una mareggiata violenta che butta via il lavoro di cinque anni. Rosa non si scompone e fa ritirare su i piloni. «Per lui non esistevano problemi, andava avanti per la sua strada», raccontano gli operai nel film. Un anno prima dell’inaugurazione riesce persino a portare l’acqua potabile trivellando il terreno. Ma Veltroni procede più spedito e sicuro di Rosa, e così il fascino per l’avventura nel libro si irrigidisce, l’occupazione generazionale è andata a segno.
A forzare l’interpretazione ci avevano provato anche i giornali e rotocalchi dell’epoca con le inchieste estive scanzonate e paranoiche di Oggi, Panorama, Epoca: parlavano di casinò sull’acqua per sfuggire a uno Stato che aveva già boicottato quello di San Marino, di night e spogliarelli senza controlli, di radio o tv pirata per l’Italia che non va a letto con Carosello, infine il sospetto di un legame politico con l’Europa dell’Est. Complice l’estate l’Isola riceve molte visite, venti barche organizzano tour, portando tra i venti e i sessanta turisti l’ora. C’è chi attracca e sale «anche se non c’è spazio per restare» e chi rimane intorno. Il 25 giugno lo stato italiano arriva sotto la piattaforma e impone il blocco navale. Rosa lancia appelli al presidente Saragat e all’Onu. A luglio l’Isola finisce in parlamento, c’è l’interrogazione del missino Menicacci che chiede lumi sullo “stato burletta”, e lo farà anche il Pci. Arrivano lettere da tutta Europa per solidarietà, alcuni per chiedere la residenza. Rosa tenta un blitz senza fortuna. Il 17 agosto viene comunicata la decisione della demolizione, i coniugi Ciavatta sono già tornati a Rimini.
Solo con un escamotage burocratico Rosa riesce a ottenere tempo. Non c’è nessuna manifestazione di piazza. Poi viene il freddo dell’autunno, altra burocrazia fino al Consiglio di Stato che emette la sentenza definitiva: nessuno può arrogare diritti sul mare. La questione si trascina fino al febbraio 1969, l’epilogo dell’avventura dura più della stessa Repubblica delle Rose. Ci vogliono 527 chili di tritolo, 50 di plastico, duemila metri di miccia detonante. La posa dell’esplosivo dura oltre un mese, a più riprese. Altro che jukebox, gli sconosciuti operai avevano lavorato duro e i calcoli di Rosa avevano creato «una roccaforte, non un’isola: i piloni resistettero a lungo fino a seppellirsi da soli», racconta nel film l’incursore della Marina Leonardo Siciliano chiamato a far esplodere l’Isola.
Come ha ricordato Giacinto Cerviere su Abitare, Rosa «era un tecnologo distante da tutti i circuiti artistici d’avanguardia dell’epoca, che già dal 1958 aveva sperimentato in mare aperto un innovativo tipo di struttura galleggiante in acciaio tubolare che potesse resistere alla forza delle onde. Mise così a punto un brevetto che nel 1968 si materializzò con i lineamenti di una spartana piattaforma di calcestruzzo armato e acciaio di 20×20 metri, sospesa a otto metri dal livello marino, sostenuta da nove pali cavi di 630 millimetri conficcati per quaranta metri di profondità». Più facile per l’immaginario dello scrittore Veltroni farla riaffondare con la «garbata ortodossia di sé stesso» come ha scritto Scanzi sul Fatto Quotidiano, sotto il peso del jukebox generazionale. L’Isola vera ha dato ancora notizie di sé tre anni fa, quando la spedizione del club riminese Dive Planet ne ha ritrovato finalmente i resti, a tredici metri di profondità.