Manovre navali nel Golfo, dagli Usa un avvertimento all’Iran

Manovre navali nel Golfo, dagli Usa un avvertimento all’Iran

La tempesta perfetta, se mai scoppierà, è ancora lontana. Ma nel Golfo Persico sale la tensione e all’interno delle lussuose residenze delle monarchie sunnite, alleate di Washington, la parola d’ordine è bypassare Hormuz. Dietro l’angolo c’è uno spauracchio, che riporta periodicamente verso l’alto il prezzo del petrolio, e che Teheran agita sapientemente come una clava, per scongiurare ulteriori sanzioni o punire i Paesi che le hanno votate: la chiusura al traffico navale dello Stretto, da cui passa il quaranta per cento dell’oro nero del pianeta.

Finora l’Iran si è limitato a minacciare di morte lenta, per sete, la traballante economia mondiale, «non facendo passare da Hormuz neppure una goccia di petrolio», come ha ripetuto il comandante del fronte navale delle Guardie Rivoluzionarie, Ali Fadavi. Il fronte avverso a Teheran, però, ha cominciato a studiare un piano B. Negli ultimi mesi l’Arabia Saudita ha ripreso l’attività della vecchia pipeline, 1.220 chilometri, fatta costruire da Saddam Hussein negli anni Ottanta, all’epoca della guerra tra Iran e Iraq, proprio per bypassare lo Stretto e trasportare via terra il petrolio di Bagdad e quello di Riyadh, in direzione del Mar Rosso. L’oleodotto – dal quale passavano 1,65 milioni di barili al giorno – era stato confiscato dall’Arabia nel 2001, come compensazione per i crediti detenuti nei confronti dell’Iraq, ed era stato utilizzato dai Saud per veicolare gas.

Adesso gli sceicchi hanno deciso di riconvertirlo al greggio. Non si tratta di cifre abnormi – la pipeline, al momento, può coprire circa il 25 per cento dell’export  saudita – ma è un segnale di cui non si può non tenere conto, tanto più che gli Emirati, una settimana fa, hanno compiuto un passo analogo, inaugurando, alla presenza del ministro dell’Energia Mohammed bin Dhaen al-Hameli, un oleodotto costruito allo stesso scopo. Dai pozzi di Habshan, ad Abu Dhabi, fino al terminal di Fujairah, sul Golfo dell’Oman: una pipeline di 360 chilometri, tutta interna agli Emirati, costruita in 4 anni, con un investimento di 3,5 miliardi di dollari. La struttura, pienamente operativa da agosto, ha una capacità iniziale di 1,5 barili al giorno, fino a un massimo di 1,8 milioni. Una quantità ingente, se si pensa che la produzione giornaliera degli Emirati si aggira intorno ai 2,5 milioni di barili. L’obiettivo delle due pipeline è ambizioso, raggiungere i 6,5 milioni di barili al giorno, coprendo così il quaranta per cento dei traffici che attualmente transitano per Hormuz, 17 milioni di barili.

Molti analisti continuano a non credere alla possibilità che le minacce iraniane di chiudere lo Stretto diventino realtà. In primo luogo, perché da quel tratto di mare non passa soltanto l’oro nero, ma tutte le materie prime alimentari di cui Teheran, duramente provata dalla crisi economica e dalle sanzioni – che hanno fatto precipitare la moneta nazionale, il rial – ha un disperato bisogno. Inoltre, una simile mossa scatenerebbe la reazione degli Stati Uniti e delle potenze sunnite del Golfo.

Recentemente Washington, per tutelarsi di fronte a un’eventuale conflitto, ha accresciuto la propria presenza militare nella regione, che già conta sulla Quinta Flotta, di stanza in Bahrein. A fine gennaio il ministero della Difesa, Leon Panetta, ha deciso di trasformare la Ponce, vecchia nave da guerra destinata alla rottamazione, in una base galleggiante, estremamente flessibile e in grado di ospitare truppe e materiale bellico, oltre a un ospedale. Ad inizio giugno il Pentagono, a scopo di deterrenza, ha inviato nel Golfo quattro navi specializzate nello sminamento, che si sono aggiunte alle quattro già presenti. Il timore, infatti, è che l’Iran possa fare minare lo Stretto utilizzando piccole imbarcazioni.

Malgrado l’aumento della potenze bellica – ad aprile una squadra di combattenti F-22 è stata inviata negli Emirati Arabi – Obama, a differenza del premier israeliano Netanyahu, non ha alcuna intenzione di colpire le installazioni nucleari di Teheran con uno strike preventivo, tantomeno nel bel mezzo della campagna per le presidenziali. Tutte le mosse degli ultimi mesi, dalle sanzioni all’Iran, sempre più dure, ai movimenti militari, hanno uno scopo puramente preventivo. Lo stesso scudo antimissile che Washington sta pianificando di costruire nel Golfo, il Terminal High Altitude Area Defense (THAAD), mira a non lasciare il Paese impreparato, nel caso di un confronto con Teheran. Il Wall Strett Journal ha scritto che il Pentagono intende costruire una stazione radar di difesa anti-missilistica in Qatar, analoga a quella è già attiva nella Turchia centrale e, dal 2008, nel Deserto del Negev israeliano. Doha sarebbe stata scelta perché ospita la più grande base aerea degli Stati Uniti nella regione, quella di Al Udeid. L’amministrazione Obama non ha smentito la notizia.

Che la tensione nell’area sia in continua ascesa, lo dimostra un altro episodio. Il 16 luglio i marinai della Rappahannock, una petroliera militare che rifornisce la flotta statunitense, hanno sparato a un peschereccio indiano vicino al porto di Jebel Ali, negli Emirati Arabi Uniti, a trenta chilometri da Dubai. La dinamica è molto simile a quella dell’incidente cha ha coinvolto nell’Oceano Indiano la petroliera italiana Enrica Lexie, per il quale sono ancora nelle maglie della giustizia del Kerala i due marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Le autorità degli Emirati hanno aperto un’inchiesta, che si affianca a quella della Marina statunitense, ma è facile leggere nell’episodio la spia di un nervosismo crescente, a causa del rischio di attacchi da parte dei pasdaran iraniani. L’allarme riguarda soprattutto le piccole imbarcazioni dei Guardiani della Rivoluzione. D’altronde, in tema di terrorismo, il ricordo dell’ottobre 2000 quando la portaerei Cole fu vittima di un attentato suicida, che causò 17 morti, mentre faceva rifornimento nel porto di Aden, è troppo vicino per essere rimosso. 

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