Piano Solo, quando Napolitano a Scalfari erano già fianco a fianco

Piano Solo, quando Napolitano a Scalfari erano già fianco a fianco

Non è la prima volta che Eugenio Scalfari e Giorgio Napolitano si ritrovano fianco a fianco in una questione delicata che riguarda la presidenza della Repubblica. L’occasione precedente fu 45 anni fa, in piena Guerra fredda, quando segretario del Pci era Palmiro Togliatti, e il presidente della Repubblica nel mirino era Antonio Segni. Anzi, sotto tiro era il partito di cui Segni faceva parte, la Democrazia cristiana, perché stiamo parlando del 1967 e Segni si era dimesso per malattia nel dicembre 1964. La vicenda è quella del cosiddetto Piano Solo e del presunto tentativo di golpe del generale dei carabinieri, Giovanni De Lorenzo (presunto perché gli studi più recenti – Franzinelli, Il Piano Solo. I servizi segreti, il centrosinistra e il «golpe» del 1964, Mondadori 2010, che utilizza una mole di documenti inediti – ritengono che si sia trattato soltanto di «un’interpretazione estensiva e autonoma» del «piano di emergenza speciale» preparato dalla polizia nel novembre del 1961, quando si temevano violenze di piazza in seguito alla crisi di Berlino).

L’esistenza di un piano per arrestare in caso di “emergenza” 731 personaggi, dirigenti del Pci e della Cgil, ma non solo (dovevano finire impacchettati anche i registi Pier Paolo Pasolini e Gillo Pontecorvo, gli storici Aldo Garosci ed Enzo Santarelli, il critico d’arte Ranuccio Bianchi Bandinelli e qualche socialista come l’emiliano Clodoveo Bonazzi) viene rivelato in un articolo dell’Espresso del 14 maggio 1967 (ma le anticipazioni vengono diffuse tre giorni prima). Il settimanale, al tempo diretto da Eugenio Scalfari, pubblica un pezzo di Lino Jannuzzi dal titolo “Complotto al Quirinale”. Con lo stile piuttosto concitato che caratterizzava allora l’Espresso, una specie di trasposizione giornalistica dei quadri di Hieronymus Bosch, («Il 14 luglio del 1964 fu la giornata più calda dell’anno: 36 all’ombra. Due generali di divisione, undici generali di brigata e mezza dozzina di colonnelli, in piedi, impettiti sull’attenti, stipati nella stanza del comandante generale dell’arma dei carabinieri, sudavano. Né era pensabile che ci si potesse sedere, spalancare le finestre, farsi venire su delle granite dal bar all’angolo di viale Romania. Sarebbe stato più confortevole, ma assai sconveniente e incompatibile con la solennità del momento. Calmo e severo, nonostante fosse il più grasso e il più sudato di tutti, il comandante generale, Giovanni De Lorenzo, stava concludendo il rapporto agli ufficiali») Jannuzzi spiega che il generale dei carabinieri, col pieno consenso del presidente Antonio Segni, intendeva mettere a segno un golpe per cacciare dal governo i socialisti di Pietro Nenni da poco associati alla stanza dei bottoni dai democristiani di Aldo Moro (che in quei giorni del 1964 presiedeva i primi governi di centrosinistra).

La politica di apertura a sinistra era profondamente avversata dalla corrente democristiana dei dorotei (di cui in un primo momento aveva fatto parte pure Moro) che aveva proprio in Antonio Segni uno dei suoi punti di riferimento. I tentativi di estromettere il Psi non andranno a buon fine, ma segneranno profondamente la politica italiana. Il generale De Lorenzo, medaglia d’argento al valor militare per la sua attività nella Resistenza (il che non gli impedirà di finire i suoi giorni come parlamentare di estrema destra), prima di essere a capo dei carabinieri aveva diretto il Sifar, dove si era dedicato alla compilazione di dossier su numerosi personaggi.

La vicenda si dipana tra il 1964 e il 1965, ma diventa di dominio pubblico soltanto dopo la pubblicazione dell’articolo di Jannuzzi nell’Espresso. Nel frattempo Antonio Segni viene messo fuori gioco da un ictus che lo coglie durante un’agitata discussione proprio con Aldo Moro e Giuseppe Saragat, l’esponente socialdemocratico che gli succederà alla presidenza della Repubblica. Naturalmente le faccenda deflagra come una bomba nel mondo politico italiano, con contrapposizioni davvero inaspettate. Nel Pci il fronte della fermezza è guidato proprio da Giorgio Napolitano che, assieme a Pietro Ingrao e Mario Alicata, vuole proporre una mozione contro i dorotei. A sorpresa Napolitano viene sconfessato dal suo segretario, Palmiro Togliatti, che invece apre uno spiraglio verso un eventuale governo di emergenza guidato dal presidente del Senato, Cesare Merzagora (governo che non vedrà mai la luce, mentre Aldo Moro succederà a se stesso).

Eugenio Scalfari e il suo giornalista Lino Jannuzzi sono schierati sulla medesima linea di contrapposizione frontale con i dorotei e quindi con l’operato del precedente inquilino del Quirinale. Per i loro articoli sul Piano Solo saranno processati per direttissima e condannati nel marzo 1968 a 15 (Scalfari) e 14 (Jannuzzi) mesi di reclusione con la condizionale. Condanna giunta dopo che il pubblico ministero Vittorio Occorsio (ucciso il 10 luglio del 1976 dal neofascista Pierluigi Concutelli) aveva chiesto il proscioglimento dal reato di diffamazione aggravata. Entrambi vengono poco dopo eletti parlamentari nelle fila del Psi (Jannuzzi tornerà in Parlamento molti anni più tardi con Forza Italia). 

Franzinelli sostiene che l’ipotesi del golpe è irrealista anche perché sia il Vaticano sia gli Stati Uniti erano favorevoli al centrosinistra. Anzi, secondo gli americani, questo era il modo migliore per tenere il Pci lontano dal potere. Un rapporto del dipartimento di Stato americano reso pubblico di recente afferma: «Un regime di destra extra legale sarebbe decisamente contrario ai nostri interessi a lungo termine in Italia e, eccezion fatta per un’alternativa al caos totale che includesse il pericolo di una presa del potere comunista, dovremmo utilizzare la nostra influenza politica per prevenirlo». Niente golpe, quindi, a meno che non servisse a cacciare i comunisti dal governo. Il Piano Solo, secondo le parole di Franzinelli, era «una pistola scarica, che viene nondimeno oliata e accudita, così che alcuni leader politici si sentono sotto tiro».

Col senno di poi, si può affermare che Scalfari e Jannuzzi avevano torto: De Lorenzo era abbondantemente uscito dal seminato istituzionale, ma il suo non era un tentativo di golpe e quindi le accuse all’operato di Antonio Segni non potevano contare su una solida base.
 

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