L’assenza di Renzi all’assemblea del Pd non è stata un autogol

L’assenza di Renzi all’assemblea del Pd non è stata un autogol

È riuscito ad essere il protagonista della giornata, anche senza farsi vedere. All’assemblea nazionale Pd di sabato si sono presentati in più di seicento, ma il dirigente democrat più discusso e chiacchierato è stato l’unico assente. Matteo Renzi, il sindaco rottamatore di Firenze, prossimo avversario di Bersani alle primarie.

Vittima di insulti e ironie, Renzi ha dominato la scena della Capitale. Nonostante nelle stesse ore fosse in Puglia con il suo camper. Impegnato in una campagna elettorale che sembra non interrompersi mai. Una parte dell’establishment Pd si è arrabbiata, un’altra si è offesa. Furioso, l’ex presidente del Senato Franco Marini ha parlato di «errore grave e controproducente». Persino il segretario Bersani si è lamentato: «Avrei gradito che Renzi ci fosse – ha spiegato in un’intervista tv il giorno dopo – Non mi è piaciuto, è una cosa che mi ha colpito molto».

Già due giorni fa lo staff di Renzi ha cercato di mettere le mani avanti. «Matteo non è venuto per non personalizzare troppo lo scontro» ha spiegato a caldo il coordinatore della campagna elettorale Roberto Reggi. «Grazie alla sua assenza si è potuto parlare di contenuti». Peraltro «ha fatto bene a non venire, c’era un clima molto ostile».

A vederla da fuori sembrano aver ragione i rottamandi democratici. Ma come, il segretario si prende coraggiosamente l’impegno di aprire le primarie, il partito si riunisce per cambiare le regole e il diretto interessato neppure si presenta? Una partecipazione, anche solo simbolica, sarebbe stata dovuta. Un segnale distensivo. Un gesto di rispetto verso il Pd e gli avversari interni.

Probabilmente la maleducazione non c’entra. Sabato Renzi non era a Roma, perché era giusto che non ci fosse. Perché chi studia le sue mosse e pianifica le sue strategie elettorali ha capito che era meglio così. Nella campagna per le primarie di Renzi nulla sembra lasciato al caso. Nessun atteggiamento (o assenza) del sindaco è frutto dell’improvvisazione.

Chi ha partecipato ai suoi comizi se n’è accorto. Uguale il format dell’intervento, studiato a tavolino con i suoi più stretti collaboratori (a partire dallo spin doctor Giorgio Gori). Identici i dettagli delle decine di appuntamenti. Le battute più riuscite vengono riproposte di tappa in tappa, anche se ogni volta sembrano autentiche. Tutto è pianificato. Dalla scelta degli abiti a quella delle città e delle sale dove si svolgono gli incontri.

Per certi versi il sindaco ricorda il Cavaliere. Con quelle battute confezionate da qualche stratega della comunicazione. Chi non ricorda l’uscita sui «tanti coglioni che votano contro il proprio disinteresse»? Era il 2006, a tutti era sembrato uno dei maggiori autogol di Berlusconi. Una scivolata frutto del nervosismo. E invece alla fine di quella campagna elettorale l’ex premier riuscì a raggiungere lo sfidante Romano Prodi, recuperando oltre cinque punti percentuali di svantaggio.

Renzi ha capito che partecipare all’assemblea nazionale del Pd non sarebbe stato fruttuoso in termini di voti. L’immagine di sé che vuole dare al Paese è lontana anni luce dalle riunioni di partito e dagli scontri tra correnti. Ma anche da tutti quei meccanismi – in realtà pienamente democratici – che la gente ormai non riconosce più: espressione ultima del potere di dirigenti lontani e intoccabili. Non a caso durante l’assemblea Pd Renzi non era a casa sua, ma in camper. Tra la gente. Lui sì vicino alle persone – questo almeno è il messaggio che doveva passare – e non rinchiuso in un albergo con le alte sfere del partito.

L’obiettivo della sua campagna elettorale è mostrare un candidato “on the road”, vicino ai problemi degli italiani. Non un dirigente che si occupa di cavilli e burocrazia. E Renzi sembra riuscirci bene. Pochi giorni fa il sindaco ha sollevato la questione del regolamento per le primarie. Lo ha fatto con una frase semplice, chiara, potenzialmente esplosiva. «Perché cambiano le regole solo adesso? Non bastavano quelle che hanno fatto vincere Prodi, Veltroni, Bersani?». Una domanda anche giustificata. Quando però il partito ha iniziato ad affrontare il nodo – anche nell’interesse del primo cittadino rottamatore – il sindaco si è chiamato fuori. E mentre l’assemblea di sabato discuteva di ballottaggi e doppi turni Renzi si è limitato a dire: «Nessuna polemica, mi fido di Bersani». Insomma, lui è estraneo a certi problemi. Nemmeno la questione l’avesse posta qualcun altro.

I dirigenti Pd non se ne sono accorti. Anzi, sabato scorso invece di sminuire l’assenza di Renzi l’hanno sottolineata. Hanno trasformato la sua scelta di non partecipare in un caso. E allora via agli insulti, alle recriminazioni. Un’altra occasione persa. Un altro modo per marcare la distanza tra l’apparato di partito e il sindaco. Un altro pacchetto di preferenze regalate a Renzi che, partito senza troppe speranze, ora rischia davvero di insidiare Pier Luigi Bersani. 

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