È bastata l’immagine di una vite, postata su un social, e il mondo dei media è andato in sussulto per una notizia completamente falsa. La vite è questa:
Una società svedese ha infatti voluto fare un esperimento. Ha disegnato questa vite, che come si vede non si può svitare con nessun cacciavite in commercio e ha messo l’immagine sul forum Reddit (quello che usa anche Obama) dicendo che «un amico ha fatto questa foto in una fuit company, ovviamente si stanno creando le loro viti». Da lì, la notizia è finita dappertutto:
Ovviamente scatta la polemica per quello che è visto come un tentativo di Cupertino di impedire ai consumatori e soprattuto agli IT geek di potere aprire le macchine Apple. Le testate che ripresero la notizia (Yahoo, MacWorld e Wired) e qualche blog la riportarono con un lieve scetticismo sulla sua veridicità, mentre il resto della blogosfera si divise fra chi la sposava e chi la riteneva una balla, con una proporzione, dice il post della società svedese, di 9 a 1. I commenti su Twitter, Facebook e Google + la prendevano invece in toto come vera. La vite alla fine, quando fu raccontata la sua genesi, scatenò un dibattito con chi sosteva che la bufala sia quella che racconta il sito svedese e chi diceva che in realtà la storia della vite sarebbe stato un ballon d’essai guidato dalla stessa Apple. Ma l’esperimento funzionò: in poco tempo era stata fabbricata una balla diventata vera e diffusa come tale.
Per carità, qui si parla di una vite, nulla di davvero importante. Ma storie simili, pubblicate come vere ma rivelatesi del tutto false, sono apparse in Rete (e nello specifico sui social per poi essere riprese dalla stampa tradizionale), in merito al conflitto in Siria e in Libia come anche sulle immagini di un’alluvione in Cina. La verità non è solo la prima vittima della guerra. Né la notizia falsa è una novità del mondo contemporaneo: semmai la novità risiede nella facilità con cui si può ora manipolare un’informazione o un’immagine, nella maggiore difficoltà a distinguere il vero dal falso, e nella rapidità della diffusione.
Ora, provate a unire a questo quadro quanto racconta Santiago Lyon, il direttore della fotografia dell’Associated Press, una delle più grandi al mondo, che sui Nieman Reports di Harvard spiega che «capire in tempi rapidi se una fotografia sia stata manipolata è impossibile». Oppure prendete il lavoro di verifica sui social che svolge l’agenzia Storyful di Mark Little per conto di testate come il New York Times o Abc. Se vedete tutti questi elementi, si capiscono le questioni che sollevano l’uso dei social per la credibilità e la qualità dell’informazione.
In che modo i social possono essere informazione? In che modo i social media hanno cambiato il giornalismo? Gli standard su cui si costruisce la veridicità o meno di un’informazione, il processo su cui si basa la sua verifica, vengono messi in discussione dai social? Se tanti tweet dicono la stessa cosa, si può dire, in ossequio al principio che il primo criterio di verità è la sua intersoggettività, che quella cosa è vera? Come utilizzare un video generato da un utente e trovato su un social senza cadere in patacche o bufale? Quanto c’è di vero e spontaneo nel mondo dei social, includendo in essi i forum, e quanto di manipolato? La frase “è vero perché l’ha detto la Tv” può diventare “è vero perché l’ha detto Twitter”?
È a queste questioni che vuole rispondere un paper della Fondazione Ahref, quella presieduta da Luca De Biase e nel cui comitato scientifico siede Paul Steiger, un campione del giornalismo di inchiesta Usa (sotto la sua direzione il Wall Street Journal vinse 16 Pulizter) ora direttore di ProPublica, la prima testata online a vincere il prestigioso premio. Il paper (“Il processo di verifica ai tempi di Twitter”) parte proprio dalle tecniche in uso presso Storyful e presso l’Hub della Bbc, anch’esso specificamente dedicato ai processi di verifica di quanto si afferma sui social, per individuare quali siano i corretti processi di verificazione. Un lavoro simile la Ahref l’aveva svolto sugli standard dell’informazione “tradizionale” andando a studiare i manuali di giornalismo di alcune delle principali testate internazionali (Reuters, Bloomberg, Newsweek,…) alla ricerca di un minimo comune denominatore che definisse dei criteri precisi di verifica (“Gli standard dell’informazione”). Entrambe gli studi sono stati portati avanti da chi scrive che, nel caso del secondo, si è avvalso anche della collaborazione dell’epistemologo Paolo Bottazzini.
In questo modo si è voluto raccontare nello specifico le storie che avete letto poco fa e analizzare con quali criteri l’informazione svolga il processo di «avvicinamento progressivo alla verità» tanto caro a Popper. Studiando le conseguenze sui nostri meccanismi di verificazione dell’information overload (il processo per il quale la vera censura della modernità sta nell’abbondanza e non nella scarsità di notizie) e del Filter Bubble (il processo per cui i social sono strutturati per fornirci conferme di noi stessi e delle nostre credenze, facendoci evitare le informazioni non coerenti coi nostri profili e finendo così col chiuderci in una bolla che scambiamo per il mondo). Nel paper sul processo di verifica ai tempi di Twitter si discutono anche le conseguenze politico-sociali del processo di dis-intermediazione su cui si basa l’informazione dei social e quindi le grandi opportunità che offre ma anche l’implicito rischio di radicalizzazione della discussione politica che comporta (dai no Tav a Grillo la dis-intermediazione è già un soggetto politico). Lo sforzo di entrambe i lavori della Fondazione Ahref è quello di cercare di fornire, soprattutto a chi fa informazione dal basso, una cassetta degli attrezzi, sia pratica che concettuale, per sapersi muovere in questo mondo, per fare sì citizen journalism ma in maniera precisa, rigorosa e, soprattutto, consapevole di ciò che si sta facendo e dell’importanza della sua modalità.
Dicono alcuni: «La vera novità non è la Rete ma i social, infondo la Rete prima dei social altro non era che una brutta copia del cartaceo». Oppure dicono altri: «Quando nacquero le prime gazzette spesso si chiamavano “Il caffè” perché nascevano nei luoghi di aggregazione. Poi quel legame si è spezzato e ora, coi social, torna ad essere così evidente che è chiaro che è da qui che i giornali devono ripartire». È tutto vero, ma per portare a compimento questo straordinario momento di trasformazione delle informazioni bisogna prima vincere una sfida: quella di non perdersi in un mondo di specchi che rischiano sempre di più di riflettere immagini che non esistono.
Twitter: @jacopobarigazzi