Se ne sono andati (due maestri di sensualità)

Se ne sono andati (due maestri di sensualità)

Norodom Sihanouk

(31 ottobre 1922 – 16 ottobre 2012)

Il re-padre della Cambogia. È stato questo l’ultimo suo titolo.

È morto a Pechino, dove era andato per curarsi, e dove era sempre ben accolto e rispettato, da quasi mezzo secolo. A Phnom Penh regna senza governare uno dei suoi figli, Norodom Sihamoni, in un marchingegno storico abbastanza unico: una monarchia elettiva (con il sovrano scelto all’interno della famiglia reale), e saggiamente restaurata anche come visione, o rimedio simbolici. Per un Paese già martirizzato da un genocidio che ha fatto fuori, non tanto tempo fa, un terzo dei suoi abitanti.

Il massacro di massa degli khmer rossi negli anni Settanta è diventato proverbiale nelle enciclopedie dei genocidi del Novecento, ma si è anche sovrapposto con una ferocia d’immagine con pochi precedenti, a tutto quello che caratterizzava la Cambogia prima di allora: quello era il Paese della civiltà khmer, e dei turisti appollaiati sui gradini dei templi di Angkor Vat. Era soprattutto l’apparente, pacifico, territorio di un principe-presidente-primo ministro-autocrate modernizzante, un po’ frivolo e abbastanza tragico. Cioè, Norodom Sihanouk. In vita e post-mortem, i commenti su di lui non sono variati un gran che: la sua astuzia, i suoi equilibrismi nella sezione sud-est asiatica della guerra fredda, la sua passione per le donne, per le mogli e per l’ultima in particolare, la regina Monique. E poi per la Francia, per il jazz, per il sassofono, e per una leadership durata 64 anni (tanti quanti ha regnato Vittoria d’Inghilterra).

Due caratteri in uno lo chiarificano di più: Sihanouk è stato uno dei capi più moderni e più tradizionali della storia recente e, per questo, uno dei più laici. Si parla di laicità della politica e del potere: intuiti per forza di cose, e presto, da un re asiatico incoronato a 18 anni, in piena guerra generale, con il proprio Paese colonia dei francesi, e invaso dal Giappone. Si parla di perfezionamento, molto personale, di quel carattere laico (e della sua esasperazione realistica, o cinica) nel lungo periodo del mondo postbellico dove tutto cambiava, ma dove l’epicentro stava nel confronto comunismo – “mondo libero”.

Nella Cambogia di nuovo indipendente, con il Vietnam diviso in due ai fianchi, e il pachiderma cinese alle spalle, Sihanouk si sarebbe modernizzato rinunciando alla corona per una premiership politica assoluta (con un suo partito di Stato, e un po’ di repressione interna), e sorridendo alle superpotenze e ai fratelli del Terzo mondo, come un “non allineato” di seconda fila dietro a primedonne come Nehru, Sukarno, Tito (non Nasser, più sbilanciato, e tributario, dell’Urss).

Sihanouk negli anni Sessanta era il primo cittadino della nazione khmer che sorrideva sempre con il gentile gesto buddista delle mani attaccate, ricevendo trionfalmente de Gaulle, e altri capi del mondo, nella sua capitale inghirlandata. Anche quel sorriso, un po’ troppo stabile, era un’espressione politica, una forma aggiornata di comunicazione, con un che di drammatico: una specie di assicurazione d’amicizia equanime e permanente, e un’implorazione a non toccare la felicità del popolo khmer rappresentato dal suo principe. Si parla, questa volta, di un carattere alla vigilia di un baratro a catena: il colpo di Stato militare ingegnato dagli Stati Uniti che faceva rifugiare Sihanouk a Pechino, che avrebbe rotto l’incanto laico della pace in Cambogia, e che avrebbe fatto trionfare, nel 1975, Pol Pot e i suoi khmer rossi a Phnom Penh.

Nell’orrore dei tre anni successivi – quasi due milioni di cambogiani deportati nelle campagne e sterminati – l’ex-principe avrebbe scelto di fare il difensore pubblico del suo Paese ad ogni costo: come presidente-ostaggio (per un anno) dei massacratori al governo, poi come loro prigioniero protetto, e infine come simbolo in esilio a Pechino che denunciava l’invasione vietnamita del 1978-79. Quell’entrata di truppe straniere liberava tutti i cambogiani dall’incubo genocidario, e Sihanouk lo sapeva: proclamando un principio – l’indipendenza del suo Paese, prima di ogni cosa – preparava, a suo modo, i suoi ex sudditi decimati a riaccoglierlo come un re-padre. Anzi come l’unica immagine, sotto la quale era possibile elaborare il lutto di quella loro Shoah sociale, e possibilmente fare giustizia.

Da premier assoluto e sempre sorridente, negli anni Sessanta, aveva messo in galera i comunisti, mentre denunciava l’escalation americana in Vietnam, e veniva onorato a Pechino. Nel tempo del genocidio veniva risparmiato dai comunisti, dopo un compromesso che, nella sua visione laica all’estremo (perché i tempi erano ferocemente estremi), avrebbe dovuto preservare il possibile nel massacro generalizzato.

La successiva denuncia dell’invasione vietnamita (lo Stato comunista egemone della zona) sarebbe poi servita come avvertimento: a tutti quei comunisti cambogiani che si sarebbero poi risciacquati e riciclati come possibili governanti della nuova Cambogia. E la restaurazione dell’antica monarchia sarebbe stata la trovata più laica dell’ex principe che in tempi andati aveva smesso di farsi re: con il trono dei Norodom, e la vecchia bandiera con i templi di Angkor Vat come simbolo, il Paese dei khmer poteva ripensare in avanti. Ex novo.

Riprendendo Machiavelli e il suo “principe” in un modo quanto possibile non automatico, si potrebbe dire che Sihanouk ha assunto alla lettera una massima: “Gli inimici si schiacciano o si vezzeggiano”. Purtroppo, nel laico ventesimo secolo, in Cambogia, questo è anche costato quasi due milioni di morti.  

Sylvia Kristel

(28 settembre 1952 – 18 ottobre 2012)

Attrice olandese, di Utrecht. Il suo film più celebre, Emmanuelle, è del 1974.

Gassou Ouattara

(1920 – 3 ottobre 2012)

Gran capo sufi della Costa d’Avorio. Aveva 92 anni. “Il baobab si è addormentato”: così hanno detto della sua morte.

Il ricordo congiunto di queste due persone, evidentemente diversissime, potrebbe essere un omaggio alla sensualità: un bene senza frontiere, un po’ perduto. Nel pensiero sufi, il misticismo musulmano prende una forma sensuale e magnanima, di una pietà costantemente vicina agli uomini e alle donne, e gli angeli scelgono chi custodire quando si addormenta, o quale anima accompagnare, quando arriva il momento della morte del corpo.

Nella letteratura o nel cinema, hard o soft, o considerati tali, l’intreccio di corpi, posizioni, caratteri, vite, può avere qualcosa di sommamente disteso: gli angeli, e il loro sesso incerto, sono lontani, ma i protagonisti – uomini, donne – si proteggono da soli, si accompagnano nelle loro storie, anche brevissime. E non ci sono famiglie, quando si addormentano, ma sensazioni postume. Volendo, anche angeliche.

D’altronde, in un celebre feuilleton francese di una quarantina d’anni fa, la primadonna, un’avventurosa creatura dei tempi del Re Sole e con molti amori, si chiama “marchesa degli angeli”. Sylvia Kristel, una bellissima degli anni Settanta, aveva rappresentato un massimo di sensualità con il nome di Emmanuelle, detta “antivierge”: nel film – definito di “soft-core pornography”, lei è la moglie di un diplomatico francese a Bangkok che, attraverso una successione di incontri sessuali, distende e varia sentimenti e una fantasia inesauribile. Tutto molto generoso e libero.

Il film – un successo internazionale, una hit in Francia e in Giappone – poteva guardare dall’alto in basso altri prodotti cinematografici successivi: tipo Gola profonda, dove l’insieme, oltre ad essere molto meccanico, era totalmente privo di sensualità.

Nel quadro d’insieme della Costa d’Avorio, la città di Kong, ha avuto una caratteristica tutta sua: un padre spirituale, uno sceicco (aveva diritto a questo titolo) capo della confraternita sufi, che predicava, magnanimamente, di “sciogliere il proprio io”, e, in certi casi di farlo fuori. In nome di pochi principi da vivere al massimo delle proprie possibilità: eliminare le guerre nazionali, fra gruppi diversi, le ingiustizie sociali, e combattere, insieme, per le proprie libertà. Oltre, naturalmente a servire Dio. Gaoussou Ouattara – lo sceicco in questione – ci metteva tutta la passione possibile, ma con infinita delicatezza, come una cosa naturale, o sensuale. Il misticismo sufi lo aiutava, e anche il fatto di essere fratello dell’attuale presidente della repubblica. Ma ha tenuto il suo ruolo, che non era solo un ruolo, o una posizione: ma una sensazione amorosa da diffondere.

La pornografia, nel caso del suo Paese, era politica: le discriminazioni di genere (uomini-donne), o tribali, eccetera. Il caso di Sylvia Kristel è andato diversamente: la sua Emmanuelle – un prototipo irripetuto – l’ha un po’ condannata a quel ruolo. Ha fatto altri film con lo stesso nome, ma i multipli erano deserti di sensualità: incontri sessuali ad accumulo e ripetitivi, con meccaniche distinzioni di ruolo.

Ouattara – un buon musulmano – aveva ovviamente una famiglia con molti figli, mentre Sylvia ha sensualmente amato una serie di primedonne del cinema come Depardieu, Roger Vadim, e Warren Beatty. Ha anche fatto altri film con registi non proprio irrilevanti (Chabrol, Robbe-Grillet), e in uno, in particolare, ha interpretato lady Chatterley. Cioè, il massimo della sensualità coraggiosa.

E, alla fine, mentre il vecchio Ouattara si «addormentava in pace come un baobab», di Sylvia Kristel qualcuno ha ricordato come lei stessa si ricordava della sua Emmannuelle: «Quel film mi ha permesso di vivere in pace almeno per un anno».