Storia MinimaTrent’anni fa la strage alla Sinagoga di Roma, la ferita è ancora aperta

Trent’anni fa la strage alla Sinagoga di Roma, la ferita è ancora aperta

Il trentesimo anniversario dell’attentato alla sinagoga di Roma (9 ottobre 1982), 1 morto 39 feriti e la visita che il Presidente Giorgio Napolitano renderà alla sinagoga mercoledì 10 ottobre, rappresentano un rito di passaggio e rimandano a due diverse questioni.

La prima riguarda la difficoltà che l’opinione pubblica italiana incontra ogni qualvolta deve fare i conti con un episodio scioccante della propria storia recente in cui sono coinvolti pezzi del proprio senso comune.

La seconda riguarda il fatto che ci sono episodi della politica che mettono in moto fenomeni per i quali la politica o le culture politiche presenti sul mercato della politica sono in grado di dare risposte solo al prezzo di mettersi profondamente in gioco e riformulare se stesse.

Il risultato in tutte e due i casi, pur con motivi e dinamiche distinti, è che la questione come dice un vecchio proverbio yiddisch cade tra le seggiole: tutti la guardano ma nessuno pensa che spetti a lui fare il primo passo per risollevarla da terra e dunque rimane lì per terra e dunque insoluta.

Consideriamo la prima questione. La visita di Giorgio Napolitano avrà un tema specifico: l’inclusione di Stefano Gay Tachè, morto nell’attentato, nell’elenco delle vittime del terrorismo e dunque il ricordo della sua morte nel giorno della memoria dedicato a quei mori, ovvero il 9 maggio. Per sollecitare la sua inclusione in quella lista mesi fa è sorto un comitato. Quella richiesta tuttavia se simbolicamente costituirà il momento esplicito della comunicazione politica in un qualche modo non costituisce il problema politico presente. Il 9 maggio scorso tra gli invitati al Quirinale per il ricordo delle vittime del terrorismo c’era anche il Presidente della Comunità ebraica romana il che voleva dire l’apertura ufficiale di un dossier che avrà come esito finale l’inclusione di Stefano Gay Tachè in quella lista.

Il problema dunque in un qualche modo può dirsi risolto. Ma se in politica è vero che ci sono dei cambiamenti che devono avvenire attraverso riti di passaggio visibili, è anche vero che quei riti di passaggio presentano dei significati, alludono a qualcosa altro. È questo “qualcos’altro” che si tratta di considerare. Si potrebbe dire, ancora considerando la prima questione che quello il significato di quel nome da includere in quella lista consiste nel riconoscimento, meglio nell’avvio di un riconoscimento di un luogo della memoria che finora è stato tale solo per il mondo ebraico italiano e non lo è stato per l’opinione pubblica italiana.

Trenta anni dopo è opportuno chiederci perché. Ma chiederci perché significa anche chiederci che valore simbolico ha acquisito quell’evento nel mondo ebraico, o meglio da chi si è sentito investito da quella violenza e soprattutto che coscienza ha sviluppato in questi 30 anni e dunque che tipo di questioni pone alla politica.

Qui a mio avviso sta il cuore politico-culturale della seconda questione. Nodo più complicato da sciogliere. Comunque nodo che non si scioglie con un riconoscimento formale, l’inclusione in una lista, lo scoprimento di una lapide o la titolazione di una via. In altre parole con l’assunzione pubblica e collettiva di un lutto o di una memoria.

Quella frattura segnata dal 1982 mi sembra si consegni intatta allo scenario politico e culturale italiano attuale e a quello dei prossimi anni. Il tema in questo caso è dato dal fatto che mentre prima la questione era da chi gli ebrei si facevano rappresentare, con gli anni ’80, non solo in Italia, sia sorta una nuova dinamica politica per cui il problema sia ora “rappresentarsi”, più che farsi rappresentare. In questa veste il concetto di comunità assume un nuovo valore come luogo della sintesi politica e dell’identità politica. Una chiave che ha punti di frizione non marginale con il vocabolario politico della sinistra, mentre apparentemente lo ha meno con quello della destra. Infatti, quella domanda di rappresentanza e di “comunità organica” coinvolge tutti e due i profili politici perché ciò che è chiamato in causa è il modo in cui si è definita l’identità nazionale nel continente europeo. In altre parole la questione dell’identità nazionale dei gruppi umani all’interno di un’unica compagine statale. 

È vero che nella rottura immediata di trenta anni fa ciò che emergeva era un lento dividersi sulla memoria condivisa che sembrava accomunare più sinistra ed ebrei che non destra ed ebrei. Il tema era infatti il venir meno di comuni sensibilità. La sinistra tende a tenere fermo il paradigma antifascista; il mondo ebraico tende a porre in primo piano la dimensione della Shoah come dato identitario principale. Non è solo un tema su cui fissare il “primato”. Quella divergenza, come è noto ha dato luogo anche a scontri non solo simbolici: sul memoriale italiano della deportazione a Auschwitz, per esempio, e sul suo destino.

Questo non significa però che il rapporto tra destra ed ebrei sia più “naturale”, o storicamente fondato, o meno problematico di quello tra sinistra ed ebrei. La crisi economica, la ripresa di fenomeni di intolleranza, il ritorno della sindrome complottistica della crisi hanno di nuovo accentuato e fatto riemergere, dentro al linguaggio xenofobo i tratti di un antisemitismo, forse “in sonno”. E ciò è vero nell’area della destra politica, ma anche in aree di sinistra e non ultimo in quei movimenti sociali e che si propongono oltre la destra e la sinistra (per esempio il Movimento Cinque Stelle).

Questo è dunque ciò che sta nel sottofondo. Non è detto che l’opzione per la “comunità organica” rappresenti una scelta avanzata, ma essa come tutti i sintomi di crisi chiede alla politica una risposta e in un qualche modo costituisce una sfida: politica e culturale, prima di tutto. Una sfida di progetto, si potrebbe dire.

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