Caro Pisapia, così com’è la quotazione di Sea è un errore

Caro Pisapia, così com’è la quotazione di Sea è un errore

La quotazione di Sea sta incontrando notevoli difficoltà, tutte prevedibili. È da quando se ne incominciò a parlare cinque anni fa che gli addetti ai lavori considerano come illogico l’Ipo [Initial public offering, l’offerta pubblica iniziale finalizzata alla quotazione in Borsa, ndr]. Ma il Comune di Milano si è intestardito a voler incassare soldi senza perdere controllo: naturale che quando si cerca di fare una quotazione con tali motivazioni, invece che per far guadagnare i sottoscrittori, il prezzo di collocamento delle azioni deve essere molto scontato. Alla fine il divario di prezzo unitario fra quanto si può ricavare vendendo tutta la società invece che un po’ di azioni diventa molto grande: qualcuno intravede una responsabilità degli amministratori per aver svalorizzato un bene pubblico.

Quali sono le regole di base per una quotazione di successo? La società deve avere forti possibilità di sviluppo, il management deve avere un track record di successo (nel senso di aver fatto guadagnare i suoi azionisti), i capitali raccolti devono stare in azienda per contribuire allo sviluppo, e l’azionista di riferimento deve esser motivato più dalla creazione del valore che dal controllo (al limite deve esser favorevole ad accettare un’eventuale Opa a valori superiori a quelli di Borsa). Inoltre, il flottante deve esser sufficiente a garantire liquidità agli investitori e il prezzo del collocamento deve consentire ragionevoli attese di apprezzamento. Non è invece necessaria una promessa di dividendi regolari se davvero c’è la motivazione dell’azionista di controllo a traguardare sempre la creazione di valore, che talvolta si ottiene mantenendo i capitali in azienda per dedicarli allo sviluppo e talaltra distribuendoli agli azionisti (normalmente il costo del debito è inferiore al costo dell’equity).

Ovviamente le banche che guadagnano commissioni in un collocamento fanno finta di ignorare le regole, e son capaci di convincere dei proprietari di aziende con scarse competenze finanziarie della fattibilità dell’operazione. Più difficile è convincere degli investitori competenti, per i quali è evidente che la quotazione di Sea non corrisponde ai criteri precedenti: le possibilità di sviluppo di una società aeroportuale in un paese in declino sono improbabili (e i dati recenti lo confermano), il vertice di Sea non si contraddistingue per aver avuto successo nel far aumentare il valore delle aziende gestite in passato, prima della quotazione l’azionista di controllo si distribuisce un maxidividendo indebitando quindi l’azienda (bella contraddizione con le dichiarate volontà di investire per lo sviluppo!).  E nessuno crede che un azionista pubblico sia interessato più alla creazione di valore che al controllo (difetto peraltro comune a molti azionisti privati). Nel caso specifico c’è anche la prospettiva di un flottante risicato, con la conseguenza di dover scontare ulteriormente il prezzo di collocamento per un problema di liquidità prospettica del titolo.

Molto più logico sarebbe stato vendere il 100% dell’azienda.  Un nuovo proprietario privato ha mani libere per investire come meglio crede, cambiare il management, ridurre i costi e fare alleanze o fusioni con altri operatori per realizzare sinergie senza i problemi di governance che caratterizzano le aziende con azionisti pubblici. In particolare un proprietario davvero privato, fondamentalmente interessato alla creazione di valore, potrà poi davvero proporre alla borsa un Ipo credibile. Per sviluppare il valore di un’azienda occorrono investimenti, che devono esser finanziati in primis con la forma meno costosa e cioè il debito. Se, però, la quantità di debito assumibile si scontra con limiti dimensionali o di rischio diventa necessario associare altri capitali, e quindi un aumento di capitale derivante da un Ipo ha una motivazione credibile; chiedere capitali al mercato deve esser il sacrificio necessario di un azionista che preferisce avere meno azioni ma più valore anziché viceversa. Forse l’azionista di Sea è ancora in tempo per scegliere la strada logica, e cioè la vendita, almeno, del pacchetto di controllo. 

*L’autore è uno dei più noti consulenti aziendali italiani. Nel 1970 ha contribuito all’apertura della sede italiana della McKinsey, di cui è stato direttore fino al 1989. Successivamente, attraverso una propria società, la Cuneo e Associati, forma una joint venture con la Bain, una delle più importanti società globali di consulenza strategica e organizzativa. Dal 2002 ritorna in proprio e due anni dopo fonda la società di private equity Synergo, per la quale sovrintende agli investimenti.

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