L’articolo numero 5 della dichiarazione costituzionale emessa dal presidente egiziano Mohammed Morsi recita così: «Nessuna autorità giudiziaria può sciogliere l’assemblea costituente o il Consiglio della Shura». Il neo-faraone d’Egitto ha voluto, in sostanza, tutelare se stesso e la Fratellanza Islamica da un intervento a gamba tesa della Corte Costituzionale sulla commissione incaricata di scrivere la nuova carta. Una decisione che nasconde una profonda verità: in molti Paesi del pianeta, dall’Egitto al Kuwait, dall’India al Pakistan, passando per Israele, le varie Consulte sono parte strutturale dell’agone civile e le loro decisioni spesso orientano la battaglia politica.
In Egitto, dove la Corte Costituzionale, formata da 21 giudici, nominati a vita dal presidente della Repubblica, è ancora quella dell’era mubarakiana, le sue sentenze si sono rivelate il bastone utilizzato dall’esercito per fermare l’avanzata islamista. A maggio la Consulta ha selezionato le candidature alle elezioni presidenziali, rifiutando quella del milionario (in dollari) Khairat al-Shater, prima scelta dei Fratelli Musulmani, e ammettendo quella di Ahmed Shafiq, ultimo premier di Mubarak.
Tutto questo malgrado il Parlamento avesse votato una legge che vietava ai cacicchi dell’ancien régime di scendere in campo. La Fratellanza ha comunque presentato un proprio candidato di ripiego, Morsi appunto, che è uscito in testa dal primo turno delle presidenziali, lo scorso 24 maggio. Qui è entrata in gioco la Corte. Il 14 giugno, alla vigilia della ballottaggio, ha dichiarato incostituzionale l’elezione di un terzo dei membri del Parlamento, quelli scelti con il sistema uninominale. L’intera assemblea legislativa – dominata dagli islamisti – è stata sciolta: a molti è sembrata una mossa preventiva, in vista di un ballottaggio dal quale sarebbe scaturito – come è effettivamente avvenuto – un presidente della Fratellanza. Il 12 agosto, poi, lo stesso Morsi, ha ripreso possesso di alcuni poteri dei quali era stato privato, attraverso una dichiarazione costituzionale emessa dall’esercito, prima del suo insediamento. La dialettica, come dimostrato dagli eventi di questi giorni, è destinata a proseguire.
Mentre gli occhi del mondo, a giugno, erano rivolti verso l’Egitto, anche la Corte Costituzionale del Kuwait – 5 giudici nominati a vita dall’emiro – ha compiuto un passo analogo. Nel piccolo Stato del Golfo, dove regna da oltre 250 anni la famiglia al-Sabah, sono frequenti gli scontri tra l’assemblea elettiva, dominata dagli islamisti, e il governo, espressione della corona: dal 2006 il Parlamento è stato già sciolto quattro volte e l’esecutivo, dal canto suo, si è dimesso in otto occasioni.
Il vento della primavera araba è arrivato anche in Kuwait. Nel novembre del 2011 la Consulta ha bloccato il tentativo dell’assemblea di interrogare il premier Nasser al-Mohammed al-Sabah, membro della famiglia reale, accusato di avere pagato tangenti a deputati pro-governo. L’emiro Sabah al-Ahmed al-Sabah ha così indetto nuove elezioni, dalle quali gli islamisti sono usciti ancora più forti, 34 seggi su 50. Dopo mesi di stallo, il 20 giugno 2012 la Corte Costituzionale ha annullato il risultato delle urne, con la motivazione che il decreto di scioglimento del Parlamento non era valido. L’opposizione ha gridato al colpo di stato, perché la Consulta, tenacemente impegnata a difendere il potere dell’emiro, ha ordinato che si reinsediasse la precedente assemblea. Il primo dicembre, comunque, il Kuwait tornerà nuovamente al voto, con una nuova, contestata, legge elettorale.
Anche in Pakistan la Corte Suprema è intervenuta nell’arena politica con vero e proprio tackle. Lo scorso 19 giugno ha destituito il primo ministro Yousuf Raza Gilani, accusandolo di oltraggio alla stessa Corte, per non avere fatto seguito all’invito da essa rivoltogli due anni fa, affinché venisse riaperta l’indagine per corruzione nei confronti del presidente Asid Ali Zardari, il vedovo di Benazir Bhutto. Lo stesso Zardari intendeva eleggere al posto di Gilani l’ex ministro delle Finanze e della Salute, Mkahddoom Shahabuddin, membro del governativo Pakistan People Party, ma la Consulta – assieme ai militari – ha fatto pressioni sulla Anti-Narcotics Force, che ha emesso un mandato di cattura nei confronti dello stesso Shahabuddin, per legami con i trafficanti di droga.
Zardari ha così ripiegato su un altro candidato, Raja Pervez Ashraf. Ad Islamabad Corte e potere civile sono ai ferri corti, da quando Zardari si oppose al reintegro al vertice della Consulta di Iftikhar Muhammad Chaudry, che era stato licenziato dall’ex presidente Musharraf. Il potere della Corte Suprema – 17 membri, nominati dal presidente, che restano in carica fino all’età della pensione, 65 anni – è abnorme. Per questo motivo anche l’incarico di Ashraf sembra precario. Il neo-premier è sotto indagine per corruzione, a causa di una vicenda che risale al periodo in cui era ministro per l’acqua e l’energia. Il suo futuro dipenderà dall’atteggiamento che manterrà nei confronti del massimo organo giudiziario. In sostanza, se deciderà di affiancarne la battaglia anti-Zardari.
La situazione pakistana non è molto distante da quella della vicina India, dove i 31 giudici della Consulta, nominati a vita dal presidente, intervengono attivamente nella politica nazionale «in materie in cui l’interesse pubblico è largamente coinvolto», come recita il suo sito internet.
All’epoca di Indira Gandhi, la Corte era percepita come uno strumento in mano al governo. Dagli anni Ottanta in poi, invece, ha acquisito un’autonomia sempre maggiore, unita a una sorta di bulimia legislativa. Questo iperattivismo ha portato la Consulta a legiferare sulle materie più disparate, dalla creazione di posti di lavoro alla pianificazione urbanistica. Si tratta spesso di direttive rivolte al governo, invitato in alcuni casi – proprio come in Pakistan – ad indagare su accuse di corruzione.
Questa bulimia ha portato alcuni a parlare di tirannia giudiziaria, sottolineando il rischio che il potere legislativo e quello esecutivo possano essere privati delle loro prerogative. Talvolta gli interventi della Corte suscitano la reazione sdegnata dell’opinione pubblica, come avvenne nel 2006, quando all’esecutivo venne ordinato di demolire circa 45.000 negozi illegali di Nuova Delhi, costruiti dietro pagamento di tangenti.
Un altro Paese caratterizzato dall’attivismo della Corte Suprema è Israele, dove i quindici giudici a vita vengono nominati da un Comitato Giudiziario di nove membri. Il conflitto con la politica, soprattutto con il Likud, è costante, anche perché la Corte si esprime spesso su questioni quali la legittimità degli insediamenti nella West Bank. Lo scorso primo luglio, ad esempio, ha ordinato la distruzione di trenta colonie costruite in maniera illegale in Cisgiordania. Quella israeliana è l’unica Corte Suprema che consente di presentare petizioni anche a chi è non è cittadino.
Non avendo una Costituzione scritta, Israele ha conosciuto, sin dalla sua fondazione, un notevole attivismo del massimo organo giuridico. Una tendenza cresciuta a dismisura tra il 1995 e il 2006, quando alla presidenza della Corte fu eletto Aharon Barak, i cui interventi, bollati dai suoi avversari come espressione di “imperialismo giudiziario”, portarono a numerosi scontri con il governo su materie di sicurezza nazionale. Nel 1999 la Corte emise una sentenza in cui bandiva l’utilizzo della tortura durante gli interrogatori. L’eredità di Barak non è andata dissolta: nel 2008 ha proibito gli omicidi mirati nei confronti dei terroristi. Un’indicazione che l’esercito non sembra avere accolto.