REGGIO CALABRIA – «È venuto il gran maestro del coso… del…ferma, che mi ricordo, come si chiama quell’altra obbedienza grossa…». «Grande Oriente». «Sì, del Grande Oriente, c’era il gran maestro che è venuto tutto pieno di collane e di cose». La trascrizione dell’intercettazione telefonica del 4 dicembre 2006 indica, a questo punto, “risate”. Poi l’interlocutore più esperto si ricompone e spiega: «Sono i paramenti per i gradi».
Probabilmente simili a quelli che, quattro anno dopo, durante una perquisizione domiciliare, i carabinieri di Locri gli troveranno in casa. Ordinatamente piegati e custoditi in camera da letto dove i militari dell’Arma erano in cerca, forse, di pistole e munizioni. Di Nicola Nesci, cinquantasettenne operaio forestale di Ciminà, nella Locride, sapevano i vecchi precedenti per armi e tentata estorsione, le frequentazioni con i pregiudicati della zona, gli affari nel noleggio delle slot-machine e l’interesse per la politica locale, con tanto di candidatura e successiva elezione in Consiglio comunale nel 2007. Ne conoscevano bene, per averlo arrestato con l’accusa di narcotraffico, anche il cognato Antonio Spagnolo, boss di Ciminà fino al giorno delle manette. Ignoravano, però, che Nicola Nesci fosse associato alla massoneria con le cariche di “Maestro segreto di 31° grado” e “Presidente della camera di 4° grado”. Titoli ai quali avrebbe unito, senza problemi di conflitto d’interessi, anche quello di “mastro di Corona”. In quest’ultimo caso, però, non parliamo di logge ma di cosche.
Nelle oltre duemila pagine dell’ordinanza notificata nei giorni scorsi ai 39 arrestati dell’inchiesta “Saggezza”, tra capi d’imputazione come estorsione, usura, intestazione fittizia di beni, concorreanza sleale e frode in appalti pubblici, sono emerse anche questioni relative all’organizzazione e all’assegnazione di cariche interne alla ’ndrangheta. Secondo i magistrati della Dda reggina proprio «il maestro segreto di 31° grado» Nicola Nesci avrebbe infatti animato, con altri complici, «una articolazione dell’associazione denominata “Corona”, struttura cui facevano capo i “locali” di ’ndrangheta di Antonimina, Ciminà, Ardore, Cirella di Platì e Canolo, finalizzata al controllo mafioso dei territori di tali Comuni».
Disseminati nella Locride e svuotati dall’emigrazione, Antonimina, Ciminà, Ardore, Cirella di Platì e Canolo bisogna metterli insieme per raggiungere quota ottomila abitanti. E mettersi insieme, in questo fazzoletto di Calabria, tra l’Aspromonte e le spiagge sabbiose dello Jonio, ostaggio della statale 106 e del binario unico della ferrovia, è l’unico modo per contare qualcosa. Per i magistrati lo avrebbe capito anche la ’ndrangheta che in zona avrebbe attivato un livello organizzativo comprensoriale, la “Corona”, appunto, per gestire in sinergia gli affari (appalti pubblici, attività commerciali, etc) e interloquire da una posizione più forte con i “colleghi” del mandamento della Locride. Ma anche per scongiurare il riproporsi di faide come quella che a Ciminà, dopo l’omicidio nel 1966 del boss Francesco Barillaro, collezionò decine di morti, compresi un pastore sedicenne (Vincenzo Barillaro, figlio del defunto capocosca), un prete (don Antonio Esposito, trucidato a colpi di mitra) e un sindaco (Domenico Fazzari).
L’anziano “capo corona” Vincenzo Melia, tornato in Calabria dopo quasi 50 anni trascorsi in America, e i suoi consiglieri (Nicola Nesci e Nicola Romano) non amano sentire parlare di guerre di ’ndrangheta. Gli arresti e la pressione delle forze dell’ordine prodotti dalla faida di San Luca e dall’omicidio del vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria, Franco Fortugno (16 ottobre 2005 a Locri), li spingono spesso a deprecare, con tono accorati di biasimo e accenni nostalgici al passato, l’allontanamento dai valori di “sangue e onore” di un tempo. «Hanno distrutto un paese come Locri che lo avevano mantenuto come “una rosa nel vaso”…sia la politica, sia la ’ndrangheta, sia la massoneria, insieme, tutti insieme, tutti d’accordo, l’avevano portato un gioiello». Per prosperare, insomma, servono saggezza e armonia. E ad un’armonica collaborazione tra “poteri” alcuni esponenti della “Corona” sembrano ispirare il loro variegato curriculum da fratelli di sangue e, contemporaneamente, fratelli massoni.
«Il contatto con gli ambienti massonici – scrivono i magistrati nell’ordinanza – costituiva un vero e proprio trampolino di lancio per gli affiliati al sodalizio mafioso, poiché li avvicinava a quelle componenti della società italiana che costituivano i veri centri decisionali in campo economico, politico e sociale». Per sei degli indagati dell’operazione “Saggezza” il contatto era formalizzato da un’iscrizione ufficiale alla “Massoneria Universale Grande Oriente d’Italia, Ordine dell’Alto Jonio reggino”, con tanto di quota associativa annuale da corrispondere: oltre al già citato Nicola Nesci, erano della partita della “squadra e del compasso” anche il presunto boss di Ardore, Giuseppe Varacalli, Giuseppe Siciliano, Rocco Mediati, Ferdinando Parlongo e Bruno Parlongo, accusati, a vario titolo, di associazione a delinquere di stampo mafioso e intestazione fittizia di beni. E affratellati con i politici, medici, avvocati e professionisti che il sabato a Siderno si danno appuntamento presso la sede della loggia. Per la sua investitura, per esempio, Varacalli volò nel 2001 direttamente a Malta. Sette anni dopo lo avrebbero ammanettato per aver favorito la latitanza del boss di San Luca, Antonio Pelle, tra i responsabili della faida di San Luca e catturato il 16 ottobre 2008 in un bunker ricavato proprio sotto un capannone di Varacalli ad Ardore marina.
L’abbraccio tra ’ndrangheta e massoneria emerso nell’inchiesta “Saggezza” non è inedito né recente. «Sino alla prima guerra di mafia, la massoneria e la ’ndrangheta erano vicine, ma la ’ndrangheta era subalterna alla massoneria, che fungeva da tramite con le istituzioni… È evidente che in questo modo eravamo costretti a delegare la gestione dei nostri interessi, con minori guadagni e con un necessario affidamento con personaggi molto spesso inaffidabili. A questo punto, capimmo benissimo che se fossimo entrati a far parte della famiglia massonica avremmo potuto interloquire direttamente ed essere rappresentati nelle istituzioni…».
Il salto, secondo Giacomo Lauro, tra i primi pentiti di ’ndrangheta, avvenne quindi nella seconda metà degli anni Settanta, dopo l’eliminazione dei boss della vecchia guardia da parte delle nuove leve (De Stefano, Nirta). Un salto proficuo ma non del tutto “invisibile”. Partendo dagli affari della cosca Pesce di Rosarno, attraverso la scoperta di relazioni pericolose tra mafiosi, politici e imprenditori calabresi, il 16 ottobre 1992 il procuratore di Palmi, Agostino Cordova, avviò, infatti, la prima inchiesta italiana sulla massoneria deviata, ipotizzando l’esistenza di una “super loggia segreta” e finendo nelle trame degli affari miliardari di Gelli e di una miriade di personaggi legati a logge massoniche coperte. Il magistrato fu immediatamente “promosso” alla Procura di Napoli e l’indagine, compendiata in quasi mille faldoni, finì archiviata.