L’Italia è prima in Europa per il numero di aziende biologiche (48.509). Sono gli ultimi dati del rapporto Green economy per uscire dalle due crisi, realizzato dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile in collaborazione con l’Enea e presentato in occasione degli Stati generali della green economy. Nel nostro Paese l’agricoltura biologica occupa più di un milione e 100 mila ettari, 18,7% della superfice agricola utilizzata. Ma quali requisiti permettono di definire un alimento biologico? Ed è vero che con le coltivazioni biologiche la produzione è minore? «Col biologico non si produce meno ma anche di più, in quanto il terreno ogni anno viene utilizzato per una coltura diversa e così diventa più fertile», spiega Alessandro Triantafyllidis, presidente della Associazione italiana per l’agricoltura biologica. «Nell’agricoltura biologica si coltiva il terreno, non la pianta in sé».
Come si può definire l’agricoltura biologica?
L’agricoltura biologica è un’agricoltura che si fa rispettando i cicli naturali del terreno e della natura. Non è solo l’assenza dell’uso di concimi e prodotti chimici di sintesi. Nell’agricoltura biologica si coltiva il terreno, non la pianta in sé. Questo significa che si punta alla fertilità del suolo. Il vero oggetto della coltivazione è la terra. L’idea dell’agricoltura convenzionale, invece, è che il terreno sia un substrato per far crescere le piante attraverso l’uso di prodotti chimici. In questo senso l’agricoltura biologica è sostenibile, perché punta anche al futuro del terreno attraverso la rotazione delle coltivazioni. L’agricoltura convenzionale ha invece degli obiettivi temporali legati alla produttività e alla monocoltura.
Proprio la scarsa produttività è uno degli argomenti che i critici dell’agricoltura biologica avanzano. La resa di una coltura biologica è scarsa rispetto a quella convenzionale.
Alcune produzioni biologiche sono paragonabili a quelle convenzionali. In altri casi la resa è minore del 10-20%. Però le potenzialità produttive del terreno con il biologico vengono aumentate. Perché si punta alla fertilità del suolo. Prendiamo le patate: con ampie rotazioni, le produzioni biologiche sono assimilabili a quelle convenzionali. Diverso è invece il caso di mais o riso: per queste coltivazioni massicce, il biologico ha di sicuro una maggiore resa. Il biologico punta alla diversità. Puntando alla diversità, ecco spiegato perché col biologico non si produce meno ma anche di più, in quanto il terreno ogni anno viene utilizzato per una coltura diversa e così diventa più fertile. La rotazione è una tecnica sempre usata nell’agricoltura, fino alla rivoluzione verde di metà anni Quaranta. Da quel momento in poi si cominciò con la monocoltura, l’uso di prodotti chimici e le alterazioni genetiche. Che invece l’agricoltura biologica ripudia.
Sì, ma se tutti coltivassero secondo i metodi biologici, tenendo anche conto della crescita demografica globale, riusciremmo a sfamarci tutti?
Mettiamo per assurdo che la Fao (Food and agriculture organisation) stabilisse che tutta l’agricoltura mondiale venga fatta secondo il metodo biologico. Bisogna comunque mettere in pratica determinate condizioni. Il problema attuale è che abbiamo poco terreno fertile, quindi quel poco che resta viene sfruttato in eccesso. Le terre vengono abbandonate per spostarsi verso le città e finiscono per desertificarsi, in più la cementificazione eccessiva fa il resto. Se noi non abbandonassimo le terre lasciandole desertificare e riducessimo i livelli di cementificazione, avremmo più terre da coltivare. In questo modo si potrebbe produrre di più anche col biologico. È sbagliata l’idea che più una società è avanzata meno agricoltori ha.
Ma i prodotti biologici sono di qualità superiore rispetto ai prodotti convenzionali?
La qualità è superiore non tanto per le capacità nutritive. Gli stessi carboidrati che ha il mais convenzionale ce l’ha anche quello biologico. Non c’è una differenza in termini di macroingredienti. Quelli che cambiano sono i micronutrienti, come flavonoli e polifenoli. E soprattutto è un cibo più pulito che non inquina ed è più gustoso. Il che dipende dalla qualità del terreno, che non è solo substrato, ma un terreno vivo che trattiene molto di più l’acqua, riducendone quindi lo spreco, e che gode dei nutrienti ereditati dalle colture precedenti.
A che punto siamo con la legislazione europea?
L’Europa si è espressa con due regolamenti, uno del 1991 e uno del 2007. In tutta Europa l’agricoltura biologica è la stessa cosa. E dal 2007 esiste anche una etichetta che identifica i cibi biologici con una bandierina verde e le stelle. Se non c’è questa etichetta, l’alimento non è biologico. Certo, la legislazione europea ha dei limiti perché deve mettere d’accordo esigenze diverse, deve unire le regole di produzione di chi coltiva in Finlandia al buio e diu chi coltiva al sole dell’Italia. Il regolamento sul metodo di produzione biologica è chiaro: sono esclusi gli Ogm, i prodotti chimici di sintesi, vengono ammessi solo i prodotti minerali naturali e organici elencati. Sono ammessi gli insetticidi naturali, come il piretro, che deriva dai crisantemi della Tanzania.
E il mercato italiano dei prodotti bio in che stato è? Gli ultimi dati parlano di una Italia leader in Europa nella produzione di alimenti bio.
In Italia il biologico si è diffuso molto e abbastanza presto a partire dagli anni Ottanta. Sicilia, Calabria e Puglia sono in testa per la produzione. Per i prodotti trasformati, i leader sono invece Veneto ed Emilia Romagna. L’Italia è anche esportatrice di prodotti bio. Il consumo interno di questi alimenti ammonta al 2 per cento del consumo totale delle derrate alimentari. In realtà siamo ancora molto lontani dal 10% della Germania. I maggiori consumatori sono soprattutto le città del centro e del Nord, ma anche al Sud si stanno diffondendo i prodotti biologici. E alcune realtà molto piccole li scelgono per le mense scolastiche. Il problema è che il boom di rischiesta del bio non si sta sviluppando grazie all’aumento della produzione italiana ma soprattutto grazie all’importazione di materie prime come concimi nella zootecnia. Si importa dall’estero perché costa meno. Il che tende a snaturare il concetto stesso di biologico che è legato anche all’affermazione della sovranità alimentare a livello locale.
Cosa significa che un prosciutto o un hamburger sono biologici o addirittura che un negozio è biologico?
Non solo significa che gli animali mangiano cibo biologico, ma che tutto il processo produttivo è tracciabile e controllato. E anche i negozi che vendono cibo bio non confezionato devono essere certificati, cioè devono rispettare alcune norme come la separazione degli spazi tra bio e ciò che non è bio. Il frigo e gli armadietti devono essere separati. E il registro di carico e scarico deve essere perfettamente tracciabile.
Il problema, però, resta il prezzo elevato del cibo biologico. Perché il biologico costa di più?
Siamo troppo abituati a spendere poco per il cibo tanto che non ci rendiamo conto di quanto costi la materia prima. Il latte viene comprato dal produttore 30 centesimi a litro e poi al supermercato lo troviamo a 1,70 euro. Nonostante non ci siano grandi trasferimenti nel latte. La stessa cosa avviene con gli altri prodotti. Il fatto che la materia prima costi di più è doveroso per valorizzare il lavoro del produttore. In Italia i prezzi salgono perché c’è una cattiva logistica e ci sono pochi distributori. Prendiamo le arance che vengono prodotte in Sicilia, poi vanno nel Nord Italia per essere impacchettate e poi tornano a Roma per essere vendute. In questo percorso i prezzi aumentano. La filiera corta è importante. Aumentare il costo di vendita del produttore è doveroso non solo per il bio ma anche per la produzione convenzionale.
E l’agricoltura a chilometro zero è parente del biologico?
Il chilometro zero è uno slogan molto efficiente diffuso dalle organizzazioni agricole. Ma il chilometro zero non è solo biologico, ci può essere il chilometro zero anche innaffiato di pesticidi chimici. L’ideale è bio e chilometri zero.