Wallace Leslie W. Sargent
(15 febbraio 1935 – 29 ottobre 2012)
Detto “Wal”: astronomo americano, nato inglese. Aveva studiato all’Università di Manchester, e sarebbe rimasto sempre un tifoso del Manchester United. Nella sua biografia incrociata anglo-americana c’è una collana impressionante di riconoscimenti, insegnamenti, premi, medaglie. Il suo primo passaggio importante, al Royal Greenwich Observatory, dove, fra l’altro, avrebbe incontrato sua moglie Annelia Cassells, anche lei osservatrice delle stelle e dell’infinito. La sua tappa centrale, alla direzione dell’osservatorio californiano del Monte Palomar, dal 1997 al 2000.
Se l’immaginazione mitologica avesse tenuto il passo con l’età moderna dell’osservazione del cosmo, si potrebbe immaginare un dio protettore degli astrofisici come un umanista rinascimentale, una specie di creatura leonardesca. O, con un secolo in più, galileiana. Con tanti caratteri quanti sono gli elementi dell’universo, e con un livello di curiosità affamata, e non saziabile, verso tutto quello che c’è da scoprire, senza fine. E con qualche specialità prediletta, e utile a rilevare pezzi di mappa del Grande Disegno.
Un astrofisico come Wal Sargent è stato particolarmente protetto dalla sua divinità tutelare, che lo ha spinto ad impegnarsi su un aspetto infinitamente reale: la storia chimica dell’universo (oggi tracciabile, senza toccare l’insolubile materia del “perché” di tutto). In 77 anni – uno in meno di Galileo – è riuscito a fare questi passi. Ha dimostrato che la maggior parte di elio presente nell’universo è stato prodotto dal Big Bang.
Ha misurato la massa della Via Lattea usando le onde radio provenienti dalle zone periferiche del cosmo. Ha dimostrato, per la prima volta, l’evidenza “dinamica” di buchi neri “supermassicci” al centro delle galassie. Ha esplorato lo strato di gas che permea la zona “spostata verso il rosso” dell’universo.
Ha studiato la natura della materia intergalattica, usando tutte le informazioni derivate per capire come quella materia si sia evoluta, dal momento della formazione delle prime galassie (in senso lato, come siamo diventati quelli che siamo). Dirigendo il Palomar Observatory Sky Survey, ha catalogato più di 50 milioni di galassie, e circa mezzo miliardo di stelle.
Ha dimostrato l’esistenza di metalli – prodotti di nucleosintesi stellare – negli spazi intergalattici, e datato la loro presenza a un miliardo di anni successivi al Big Bang (questa ricerca è fondamentale per capire la formazione delle prime stelle nell’universo “infantile”).
Wal Sargent è arrivato anche ad altri risultati, ma è complicato spiegarli, qui, in quattro e quattr’otto. Va invece ricordata la sua riconosciuta qualità anche come insegnante, e il fatto che seguiva, con molta generosità intellettuale, i suoi studenti. E, alla fine, sempre qui, vengono in mente, le ultime battute della Vita di Galileo, di Brecht: “Com’è la notte?”. “Chiara”.
Edwin Q. White
(1922 – 3 novembre 2012)
Il «capo ufficio stampa che ha visto la caduta di Saigon». Una sintesi come questa, con cui Edwin è stato titolato in memoria, ha un certo impatto, anche nella forma di una nota d’agenzia. Tutto esatto, ma questo giornalista americano di Tipton, Missouri, è stato qualcosa di più in quella tragedia americana e asiatica: un cronista-narratore dei fatti come realmente accadevano ogni giorno. Cioè, non incorporato, o “embedded”, come si usa dire (e vedere) nelle guerre, ancora non mondiali, degli ultimi vent’anni.
L’agenzia che il signor White dirigeva, nella sede vietnamita, era l’Associated Press, e l’informazione che forniva rasentava la controinformazione. Si trattava di raccontare agli americani come quella guerra fosse persa: obbiettivamente, nei fatti, e non in breve, perché è durata 13 anni.
In un drammatico voce-contro-voce fra governo (presidente, Pentagono, alti comandi) e giornalisti sul posto, si delineava un principio di realtà a più facce: i motivi “ideali” dell’intervento non erano credibili, la mano militare era, a tratti costanti, spaventosa (il napalm, la strage di My Lai, eccetera), il nemico vietcong combatteva a casa sua, le schiere di marines “born to kill” che crepavano o impazzivano erano sempre più accertate, le bugie dell’amministrazione (soprattutto Nixon) costeggiavano l’illusione di farcela, i protetti sudvietnamiti erano roba da caserma corrotta, e i milioni di americani che a casa loro, nei campus, e nelle marce per la pace denunciavano quella guerra, avevano l’aspetto, o erano l’istantanea di un’autocoscienza nazionale inedita, e politica.
Non solo, genericamente,“make love not war”. Da Saigon, il signor White e i suoi collaboratori fornivano la materia perché quel principio di realtà (e anche di giustizia) venisse a galla sempre più chiaro, come una decalcomania. Hanno fatto, non semplicemente, i giornalisti. Lui, in particolare, è stato ricordato, per tre doti: “accuracy, dispassion, objectivity”.
Con quella precisione, distacco, e obbiettività, ha visto la scena finale, partecipandoci in diretta: il 30 aprile 1975, saliva su uno degli ultimi elicotteri che lasciavano Saigon, con decolli oligofrenici dal tetto dell’ambasciata americana. Quella foto, quelle eliche, quel ritmo di fuga sono storia, ma anche una specie di choc da morte scampata. O da superamento della malattia.
Il signor White, e molti come lui, sono stati degli stabili diagnostici, e lui, in più, conosceva quei climi, culture e terreni: uno dei giornalisti più ferrati in tema di Estremo Oriente. Dopo Saigon, ha passato molti anni in Giappone: non più all’AP, ma collaborando a diversi giornali americani.
Per uno di questi –il St. Petersburg’s Times – ha letteralmente scattato la cronaca di uno dei più surreali sequestri del Novecento: quando, il 3 marzo 1977, quattro militanti giapponesi del Tatenokai (un’organizzazione nazionalista creata dallo scrittore Yukio Mishima) prelevavano in ostaggio, per undici ore, 12 funzionari del Keidanren, la Confindustria giapponese.
Nel centro di Tokio, naturalmente. L’azione era violenta, ma non sarebbe stata sanguinaria: denunciava il “big business”. Tutti rilasciati alla fine, anche perché Yoko – meno celebre dell’omonima moglie di John Lennon, ma pur sempre vedova di Yukio Mishima – aveva fatto una buona mediazione. Il signor White era lì, o nei dintorni. Curioso e preciso, come un non “quiet American”.