Se ne sono andati, anche uno dei più grandi storici del Sud Africa

Se ne sono andati, anche uno dei più grandi storici del Sud Africa

Alf Kumalo

(5 settembre 1930 – 21 ottobre 2012)

Alfred Kumalo, sudafricano nero di Johannesburg (dove è morto a 82 anni), è stato citato dal secondo ex presidente nero del Paese, Tabo Mbeki, in questi termini: «Era, prima di tutto, uno dei più grandi storici del Sud Africa».

Era anche «un gran gentiluomo», ha detto il signor Joao Silva, fotogiornalista sudafricano del New York Times. Era «tenace», e di «un’integrità tale, da continuare il suo lavoro contro la costante persecuzione degli uomini dell’apartheid, che avrebbe voluto farglielo abbandonare, o fargli vendere l’anima e dannarsi insieme a loro». Con quest’aggiunta, Tabo Mbeki ha centrato l’anima di Alf Kumalo, e la pericolosità del suo lavoro: per se stesso e la sua vita, e per il regime segregazionista che si vedeva denunciato, ogni giorno, da quello stesso lavoro. Kumalo è stato il fotografo dell’apartheid e della «black culture»: un incrocio unico fra un cronista, un fotogiornalista, un artista istantaneo, un sociologo, un combattente per i diritti civili, un manifestante le cui immagini erano un manifesto di storia e un incoraggiamento a non mollare.

Capitava, senza presentimenti, nei luoghi dove sarebbe successo qualcosa: il 21 marzo 1960, fotografava il massacro di Sharpeville, 69 manifestanti, ammazzati dalla polizia. Tutti neri, che protestavano contro il passaporto interno imposto per muoversi fuori dai quartieri segregati, o dalle township. Quelli immagini hanno fatto vedere su quali leggi si reggeva un decimo della società sudafricana, e la violenza con cui imponeva un non-diritto. Nel 1963 era nell’aula del processo a Nelson Mandela e altri capi dell’African Natinal Congress: a Rivonia, sobborgo di Johannesburg, Kumalo ritraeva una sentenza storica, i passaggi di una «giustizia» indecente, e come il futuro padre del Sudafrica libero sapesse difendersi alla sbarra (Mandela era avvocato).

Avrebbe poi fatto conoscere al mondo Steven Biko, il suo viso, il suo corpo, il suo muoversi da attivista-capo del Black Consciousness Movement. Biko sarebbe stato torturato, e ucciso dalla polizia: le immagini di Kumalo erano, e sono, la cronaca di un pre-martirio. E, nel 1976, documentava la rivolta a Soweto: 10 mila studenti – bianchi e neri – che manifestavano contro l’uso privilegiato della lingua afrikaans nelle scuole. La reazione della polizia faceva 200 morti, e il primo a venire ammazzato era un ragazzino di 12 anni. Questo era il quadro del Sudafrica boero, e si capisce quanto la prima definizione di «storico» si addica ad Alf Kumalo. Considerando anche le scene aperte, e attese, che avrebbe potuto finalmente ritrarre nei primi anni Novanta: Nelson Mandela in centinaia di foto, una volta libero (dopo 27 anni di galera), e poi presidente-padre di tutti i sudafricani.

Le istantanee degli sconosciuti, come i ritratti dei principi della cultura nera, come una folla di ragazzi prima di una manifestazione massacrata, sono, in Kumalo, visioni reali e simboliche: un detenuto nero che piange appiccicato alle sbarre tenute strette con le mani, Muhammad Ali’ fotografato in sequenza nella sfida contro George Foreman a Kinshasa nel 1974, il reverendo Desmond Tutu, i musicisti Miriam Makeba, Hugh Masakela. Alf Kumalo li ha visti e rivisti tutti con un passo in più: andando oltre l’ «espressionismo» di quelle fisionomie e di quelle storie.

Sir Rex Hunt

(29 giugno 1926 – 11 novembre 2012)

Rex Mastermann Hunt, nato nello Yorkshire, laureato in legge a Oxford, era il governatore inglese delle isole Falkland, il 2 aprile 1982. Quel giorno gli argentini del dittatore Leopoldo Fortunato Galtieri avevano conquistato facilmente l’arcipelago.

Rex, si arrendeva così: «Avete invaso illegalmente un territorio britannico, e vi ordino di ritirarvi». Ineccepibile, sotto ogni punto di vista. Il governatore si obbligava alla resa, perché 69 Royal Marines erano, in tutto, la forza militare delle isole. Lo faceva nella sala del municipio di Port Stanley, la capitale: vestito in uniforme, con il cappello piumato d’ordinanza. La scena sembrava teatrale e antiquata: aveva invece una sostanza molto contemporanea. Di fatto e di diritto: gli abitanti delle Falkland discendono soprattutto da allevatori scozzesi di pecore, e quando si erano installati – in nome della Corona britannica – le isole erano disabitate, e l’Argentina un’espressione lontana.

Il nome Malvinas è tuttora propaganda vuota di storia. E il pretesto anticoloniale, una copertura patriottarda. La breve, successiva, e non incruenta riconquista di Margaret Thatcher (un migliaio di morti, fra argentini ed inglesi) ha coinciso con l’esercizio di un diritto: la volontà dei falklanders – o «kelpers» – di restare cittadini britannici. Il fatto che a Buenos Aires, allora, imperversasse il regime dei generali e che dopo rinascesse la democrazia, non cambia i termini del problema. Rex Hunt merita un ricordo per essere stato un uomo di principii dentro l’epoca dei diritti dell’uomo: fino alla fine della sua vita – in ritiro dai servizi alla Corona – ha accanitamente difeso il diritto di quegli isolani a farsi capire e a farsi difendere. Ha presieduto, fino al 2005, una Falkland Islands Association, anche per far sapere quanto ogni aggiornata trattativa anglo-argentina per arrivare a un accordo, fosse sostanzialmente ingiusta. Merita un ricordo per un motivo anche più eccentrico: nella guerra fra la storia e la geografia, ha combattuto dalla parte della storia.

Il marchio della «decolonizzazione», in certe parti del mondo che non si incastrano in una madrepatria, è nato fuori tema: nelle Falkland, a Gibilterra, nel Nordafrica spagnolo di Ceuta e Melilla, per non parlare dei dipartimenti ultramarini della Francia, ci sono migliaia di cittadini globalizzati ante litteram dagli ex imperi, che hanno scelto il piacere, la protezione (e l’interesse) di un passaporto geograficamente lontano. Difficile dar loro torto, almeno finché dura l’epoca dei diritti dell’uomo.

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