Hanno rottamato l’ex leader Umberto Bossi, hanno messo in un angolo Silvio Berlusconi, ora puntano a prendersi i voti (e gli esponenti) del Popolo della Libertà. Sono i «barbari sognanti» della Lega Nord di Roberto Maroni, a loro modo rottamatori della seconda repubblica, quarantenni come il sindaco di Verona Flavio Tosi, i parlamentari Gianluca Pini e Gianni Fava, o trentenni come il triestino Massimiliano Fedriga, capaci di sconvolgere in un anno tutti i vecchi schemi del centrodestra. Giovani leve che ricoprono incarichi di regia in via Bellerio e che stanno imponendo la linea dentro il movimento. E che tengono il punto in queste ore concitate per la politica italiana, con Berlusconi ancora convinto di riuscire a ritrovare un dialogo con il Carroccio di Maroni, tanto da proporgli un sostegno a Mario Monti subito rispedito al mittente. «Con Monti mai, Prima il Nord», ha detto il candidato in Lombardia.
Bastava guardare le reazioni dentro Pdl e Lega dopo le minacce del Senatùr di ricandidarsi («Se no prendiamo i fucili», ndr), per capire che un ritorno al vecchio asse del Nord appare (al momento) impossibile. Nessuno ha dato peso (a parte Manuela Repetti, compagna di Sandro Bondi, ndr) alle parole di Bossi, che per di più si è ritrovato di fianco Maroni che gli chiedeva di convincere Berlusconi a fare un passo indietro: «Tu che hai influenza…». Più una battuta che un consiglio. Come fa notare un leghista, «Bossi non era neppure alla cena di martedì a palazzo Grazioli… il freddo come il caldo a volte dà alla testa». Le possibilità di candidatura del Senatùr sono nulle, dal momento che Maroni ha già detto che non si candiderà.
E allora bisogna ritornare ai giovani leghisti che stanno tenendo in queste ore convulse l’argine di fronte alle pressioni di Berlusconi su Maroni. Sono quelli che hanno rottamato la vecchia classe dirigente del Carroccio, hanno demolito il cerchio magico intorno al Senatùr e stanno facendo prevalere su Maroni la linea del partito: nessuna alleanza con Berlusconi. Non solo. Nelle ultime ore, insieme con l’avanzata di Monti, la candidatura di Bobo in Lombardia sta spaccando il Popolo della Libertà, con pezzi da novanta del partito di Berlusconi come l’ex ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini in trattativa per aderire alla lista civica che il segretario federale presenterà all’inizio della prossima settimana.
Lo schema è quello del modello Tosi a Verona. Da anni il primo cittadino scaligero ha demolito il Pdl veneto, ormai senza guida, con Aldo Brancher e Alberto Giorgetti in balia delle defezioni pidielline che ormai sono all’ordine del giorno. Stessa cosa potrebbe presto succedere in Lombardia, con un Gabriele Albertini ancora candidato e che – come ha sostenuto il segretario lombardo Matteo Salvini – «toglie più voti a Umberto Ambrosoli che a Maroni». In sostanza, gruppo ciellino di Roberto Formigoni a parte, l’area laica del centrodestra potrebbe convergere verso la candidatura di Bobo, dove ha già trovato riparo l’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti.
In pratica, tra una spallata al Cavaliere e una al Senatùr, il Carroccio si ritrova come uno dei pochi partiti (se non l’unico) in cui c’è stato un vero rinnovamento interno, come se tanti Renzi tutti assieme avessero iniziato a picconare a destra e a manca. Il pioniere è stato Tosi, primo tra tutti a sparare contro Bossi nel 2011, quando il cerchio di Gemonio, tra Manuela Marrone e Rosi Mauro, faceva ancora paura: si è sentito dare dello «stronzo» più volte proprio dal Senatùr ma alla fine l’ha avuta vinta.
A riavvolgere il nastro della storia, degli ultimi mesi della seconda repubblica, non si può non notare che il primo cittadino scaligero non ha mai sbagliato fino a questo momento. Persino pochi giorni prima della caduta del governo Berlusconi spiegò che «il Cavaliere doveva dimettersi e che c’era qualcuno che poteva sostituirlo». Stessa cosa è avvenuta con Bossi, accantonato per sempre dopo il congresso federale di Assago ai primi di luglio, un mese dopo la conquista da parte di Tosi della segreteria nazionale del Veneto.
I barbari sono tanti. C’è Davide Caparini, nuovo capo della comunicazione. C’è Matteo Salvini, segretario lombardo. Giacomo Stucchi, vicesegretario della Lega lombarda. Maurizio Fugatti del Trentino. Nicola Molteni, Roberto Simonetti, Emanuela Munerato. Senza dimenticare Giancarlo Giorgetti e Massimo Garavaglia, duo economico che ha traghettato il rinnovamento in questi anni, collaborando con Bossi, ma alla fine appoggiando la linea Maroni. Poi ci sono gli amministratori, come Luca Zaia e Roberto Cota, presidenti di Veneto e Piemonte, più defilati rispetto al resto della truppa, ma neanche sfiorati dalle minacce del Cavaliere. «Barzellette», come le ha definite lo stesso Maroni.
In questi giorni è venuto fuori anche Federico Caner, vicesegretario federale, che ha in mano la gestione delle nuove scuole politiche leghiste, primo a rispondere a Berlusconi dopo la conferenza stampa per la presentazione del libro di Bruno Vespa. «Non abbiamo paura ad andare a elezioni in Veneto, e Zaia vincerebbe a piene mani. I miei colleghi del Pdl non sono così stolti. Non farebbero mai una cosa del genere. Non lo farebbero neanche sotto indicazione di Berlusconi».
Nelle ultime ore è comparso in televisione pure Pini, uno che – sottolineano in Bellerio – si palesa quando «l’acqua è alta e bisogna saper nuotare bene». Il parlamentare romagnolo non è andato tanto per il sottile: «La mia opinione, che è un’opinione diffusa all’interno della Lega, è che non sia opportuno nessun tipo di alleanza con il Pdl e che Roberto Maroni possa vincere in Lombardia se non si allea con il Pdl». Parole fin troppo chiare.