Boris Nathanovic Strugatskij
(13 aprile 1933 – 19 novembre 2012)
«La realtà afferra sempre il sogno alla gola. Ma il sogno ha una qualità straordinaria: è impossibile farlo fuori». Il più bravo scrittore di fantascienza dell’epoca sovietica pensava questo e l’ha scritto. Anche attraverso una trentina di romanzi, creati insieme al fratello Arkadi Strugatskij. Una coppia di sognatori molto fertili: Boris era astronomo, Arkadi linguista e traduttore di testi tecnici. Due fratelli vissuti ai tempi di un pianeta il cui Paese più esteso era socialista. E indaffarato a creare, pezzo per pezzo, e a carissimi prezzi, un “uomo nuovo”.
A quei tempi, soprattutto nell’inoltrato dopoguerra, l’Urss contava due generi di persone con la testa rivolta verso le stelle: gli scienziati che facevano schizzare i cosmonauti fuori dall’atmosfera in nome del primato anche cosmico del comunismo, e un certo tipo di scrittori che elaboravano l’universo come materia prima per narrare, metaforicamente, di fughe in avanti, di evasioni libere, di scoperte di altri mondi e modi di essere.
Le metafore di Boris Strugatskij hanno fatto epoca, anche perché sapeva scrivere molto bene: hanno detto che grazie a lui e a suo fratello, «tre generazioni di lettori hanno imparato una lingua segreta». Le lingue nascoste, nel Paese-guida del socialismo e nei suoi multipli vicini, erano notoriamente un mezzo per non farsi troppo capire dai controllori di Stato, e per farsi intendere dai controllati che non ci stavano.
Le lingue maestre, o letterarie, su cui Boris si era formato erano invece decisamente chiare: Robert Louis Stevenson, H.G. Wells, Aleksandr Puškin, Leon Tolstoi. La realtà che azzanna i sogni alla gola si è data continuamente da fare per azzerare l’immaginazione, e anche la vita, dei fratelli Strugatskij. Senza mai farcela, per fortuna.
Gli Strugatskij erano di Leningrado (oggi San Pietroburgo), e durante l’assedio nazista alla città – 1942 – Boris, di nove anni, sopravviveva con la madre, mentre Nathan, il padre, evacuato con Arkadi, sarebbe morto. Ne sarebbero morti (soprattutto di fame) quasi due milioni, dopo 872 giorni di resistenza a quell’assedio. Gli Strugatskij erano ebrei, e con uno Stalin dell’ultimo periodo, senescente e ossessionato dal “cosmopolitismo” ebraico, anche la formazione di un giovane sognatore innamorato del cosmo diventava un’impresa a cui variare giocoforza la traiettoria.
Boris sognava di diventare fisico, ma gli veniva rifiutata l’iscrizione a quella facoltà. Virava allora sull’astronomia e, come un ragazzo beato nei racconti stellari e sulle sedie girevoli dei planetari, si metteva metodicamente a studiare le carte del cielo, e a frequentare l’osservatorio di Pulkovo, a Lenigrado.
Negli anni Sessanta, gli Strugatskij erano dei cittadini sovietici immersi nell’era-Krusciov, che aveva mandato Yuri Gagaarin nello spazio, e che prometteva una mano meno pesante verso gli scrittori. Il trionfo spaziale era un dato di fatto, mentre la promessa sarebbe stata un’intenzione non mantenuta (il caso Pasternak era la blindatura piu’eclatante del “disgelo”). In quel clima, gli Strugatskij – e Boris, in particolare – decidevano di prendere il volo, con la scrittura, per dire, in una lingua nascosta e con magnifiche metafore fantascientifiche, quanto quel Paese socialista del pianeta facesse sognare altri mondi, altri desideri altre vite.
Altre zone: come quella, ideale e blindata dall’esercito, dello “Stalker”.Un soggetto-simbolo diventato un capolavoro del regista Andrej Tarkovskij (il film è tratto dal libro “Picnic sul ciglio della strada”, di Boris e di Arkadi, che hanno collaborato in parte alla sceneggiatura). Sempre in quel clima, e anche dopo, fino all’entropia di quel sistema, si trattava, per uno scrittore fuori canone, di usare insieme la metafora, la satira, il marranesimo letterario, per far immaginare qualcos’altro di possibile e di umano, o per raccontare indirettamente quanto la realtà in cui si viveva fosse marziana.
E così gli Strugatskij hanno messo al mondo, soprattutto sotto Krusciov e sotto Breznev, una fila di visioni fantastiche e anche in avanti. Nei “Sognatori delle stelle”, due cosmonauti del XXI secolo, proiettati 152 anni in là, scoprono un’umanità sconvolta, utopica e ideale, che rende ancora più dolorosa la loro realtà.
In “Il lunedì comincia di sabato”, uno scienziato traffica col tempo per accelerare la produttività nazionale. Nel “Tempo delle piogge”, un gruppo di abitanti di una città annegata nella nebbia e nella pioggia, vive di letteratura, leggendo, e, per questo, è detestato dalla maggioranza dei suoi concittadini. Mentre “L’universo di mezzogiorno” è un nuovo sistema cosmico quasi perfetto, senza denaro, senza scontro sociale, eccetera, che dovrebbe essere il ritratto stellare del sistema comunista. Un ritratto, nella realtà, irreale. O lontano, extraterrestre.
Arkadi Strugatskij è morto nel 1991. Boris gli è sopravvissuto, ma ha anche vissuto mantenendo la barra del sogno, e afferrando, con i suoi mezzi, alla gola la realtà della nuova Russia: le Pussy Riots non erano fantascienza e le ha pubblicamente sostenute, Mikhail Khodorkovskij era ed è un’oppositore che marcisce in prigione, e gli ha scritto costantemente, come un amico. E allora, Vladimir Putin era ed è un guardiano armato che circonda lo Stalker, la “zona” dove, dicono, si avverino “i desideri più segreti”.
Vladka Meed
(29 dicembre 1921 – 21 novembre 2012)
Una delle ultime combattenti del ghetto di Varsavia. Cioè della prima insurrezione contro i nazisti in Europa. Del primo atto di resistenza. Trecentomila persone – ebrei ed ebree polacchi – erano stati rinchiusi nell’ex ghetto della capitale nell’autunno del 1940. Si sarebbero sollevati il 19 aprile 1943, e avrebbero resistito combattendo quasi un mese, fino al 16 maggio.
La storia di quella insurrezione è, o dovrebbe essere, un testo-base di come si sia formata l’Europa di oggi: un racconto epico, o di autocoscienza matura. Ed epici – nel senso originario del termine – sono stati i comportamenti, le azioni, i ruoli, di chi ha combattuto ed è morto (quasi tutti) in quella insurrezione. Non solo: il muro che separava il ghetto dal resto della città, è stata la prima barriera, il primo “muro della vergogna” (a dir poco) della storia europea. Vent’anni prima del muro di Berlino.
Vladka Meed – nata in un sobborgo di Varsavia che si chiamava Praga – ha avuto diversi tratti particolari. Si chiamava ancora col suo nome – Feigele Peltel – quando diventava una resistente della prima ora: arruolata volontaria nell’organizzazione ebraica di combattimento, nel 1942. La sua lingua di famiglia era lo yiddish, ma lei aveva studiato anche il polacco, con un diploma. Lo parlava con naturalezza, e la cosa non era così diffusa fra gli ebrei della capitale (per cui lo yiddish era la lingua abituale).
Quando i nazisti decretavano la reclusione nel ghetto, il muro, i passaggi nella parte “ariana” di Varsavia diventavano azioni ad altissimo rischio, controllate, piantonate. Quel ghetto era già un campo di internamento e di selezione, e una prima tappa verso i campi di sterminio. La conoscenza totale del polacco ha permesso a Vladka di diventare una staffetta, un corriere, nei mesi in cui si organizzava l’insurrezione: in un viavai stabile, passava documenti, mappe, e faceva passare le armi.
In concreto, anche lei ha preparato la rivolta. Durante quei passaggi avrebbe conosciuto suo marito, Benjamin Miedzyrzecki: che conosceva il polacco alla perfezione come lei, e che si auto arruolava con le sue stesse funzioni. Dato l’orrore della circostanza, è forse troppo lirico parlare di “epica” dei messaggeri: ma la forma, e la sostanza, di come si muoveva quella coppia è quella.
Due giovani combattenti che, con pochissime soste, molta intelligenza, e un po’ di fortuna, passavano tutto il necessario per un combattimento eroico e disperato. Alla fine dell’insurrezione, col ghetto che veniva maciullato dalle truppe naziste, Vladka e Benjamin sarebbero stati fra i pochi sopravvissuti: con la conoscenza di tutti i passaggi della città (e, sempre, della lingua parlata), il loro mimetismo, e il loro coraggio, avrebbero aiutato gli altri pochi superstiti a nascondersi, sparpagliati, in altre zone di Varsavia.
Un’idea di quella reclusione, di quella distruzioni, e poi di quel nascondersi è data in modo esemplare nel film “Il pianista”, di Roman Polanski. In particolare nella seconda parte. Vladka e Benjamin sarebbero diventati americani nel 1946, cambiando il loro nome in Meed.
Sarebbero vissuti concretamente con un’impresa di import-export, e pubblicamente come testimoni-narratori in due prime persone, di quel testo-base della nostra storia.
Il libro di memoria scritto da Vladka si chiama “On both Sides of the Wall”, dove la storia si svolge, ovviamente, sui due versanti. Quello dell’altra parte “ariana” è quasi più istruttivo: si vedono i nazisti per quello che erano, e volevano essere, e si precisa come “una parte ufficiale della resistenza polacca” (chiamata Zegota) “aiutasse gli ebrei”, ma la maggioranza (resistenti e cittadini), “fosse indifferente”.