Se ne sono andati (anche l’uomo che fece il primo trapianto)

Se ne sono andati (anche l’uomo che fece il primo trapianto)

Joseph Edward Murray

(1 aprile 1919 – 26 novembre 2012)

Chirurgo Americano e Premio Nobel. Di Milford, Massachusetts.
Negli anni Cinquanta, cercava, e ha trovato un “paziente ideale”.

L’espressione può sembrare o leziosa, o feroce. In medicina perde ogni connotato. In America si provava, in quegli anni, il trapianto di organi. Non un’utopia (nella ricerca il termine è fuori luogo) ma un percorso. Nessuno c’era mai riuscito. Il trapianto avrebbe avuto un primissimo piano una decina d’anni dopo: in Sud Africa, grazie al seducente e mondano dottor Christiaan Barnard, e al fatto che l’organo trapiantato era il cuore.

Il paziente si chiamava Louis Washkanski, sarebbe vissuto per poche settimane ma il passaggio era riuscito. Joseph Murray aveva esercitato le sue prime tecniche chirurgiche sui cani. Il Peter Ben Bright Hospital di Boston era attrezzatissimo e celebre per la sua equipe di ricercatori. Mancava il paziente “ideale”, appunto. Ne vennero fuori due: i gemelli Richard e Ronal Herrick, di 23 anni. Uno dei due era malato, da anni, di insufficienza renale terminale. In parole semplici, sarebbe morto senza un intervento. Il 23 dicembre 1954 il dottor iniziava un’operazione che sarebbe durata quasi sei ore. Il rene di un fratello veniva dato e trapiantato sull’altro.

L’intervento, riuscito, sarebbe stato il primo, in assoluto. Richard Murray avrebbe continuato le sue ricerche anche dopo l’assegnazione del Nobel. E il paziente salvato avrebbe avuto, per otto anni, una vita diversa e molto piacevolmente diversificata: sposava una delle infermiere che lo aveva assistito, e la coppia avrebbe avuto due figli. Citare quegli otto anni nuovi sembra feroce, più che lezioso, o fiabesco. Ma immaginare come “ideale” quella famiglia e quegli anni non attesi, non è forse fuori posto. 

Oscar Niemeyer

(15 dicembre 1907 – 5 dicembre 2012)

Ha rifatto ex novo il suo Paese, il Brasile: la capitale, l’immagine, il carattere. Ha reso quell’insieme cosmopolita: la curva del cosmo, o dell’universo einsteiniano, era il passo in alto di Niemeyer. Facendo l’architetto, e avendo chiara l’idea-base, l’ha tradotta così: «La bellezza, che si manifesta in una linea curva o in qualsiasi atto creativo, è il valore che conta più di ogni altra cosa». I brasiliani di oggi sono generalmente belli, anche se l’immagine è un po’ costruita. E Niemeyer ha costruito in mezzo alla vita di tutti loro cose essenziali in cui potessero riconoscersi d’acchito: città e pezzi di città. Puntando molto sulla marcia del sogno.

I suoi tredici pronipoti e i suoi sei pro-pronipoti (risultati da una prima moglie e 76 anni di matrimonio) possono dire di discendere da un sognatore manifesto: «L’umanità ha bisogno di sogni per sopravvivere alle miserie di ogni giorno. Anche se per un solo istante». L’istante in cui si guarda la Chiesa di San Francesco d’Assisi, a Belo Horizonte (Stato di Minas Gerais), può corrispondere a una di quelle scosse di sopravvivenza: una bocca rotonda sdraiata in orizzontale ai bordi di un lago, con un retro curvato e decorato, all’aperto, di azulejos.

È considerata uno dei capolavori di Niemeyer (e lo è), ma, una volta ultimata, le era stata rifiutata la consacrazione. Dilma Roussef, la presidentessa brasiliana, ha rimpianto Niemeyer come un “genio”, ma avrebbe potuto essere più originale: citarlo come una sfida stabile ai luoghi comuni. Luoghi costruiti, edifici, e comode abitudini della mente.

Per esempio, il concetto di vuoto: comunemente assunto come sinonimo di desolazione, o solitudine. Per Niemeyer è stato un’esperimento: le distese, le piazze vuote di Brasilia. I luoghi dove prende aria la burocrazia di Stato. O i simboli dell’alienazione sociale del vivere contemporaneo. In una capitale, per di più.

Lui, l’architetto, si è spiegato, in un’intervista al New York Times: «Si può non amare Brasilia, ma non si può dire di aver visto qualcosa di simile. Preferisco Rio, ma mi ha sorpreso sapere che le persone che vivono a Brasilia non vogliono lasciarla. Brasilia va avanti, con i suoi problemi, ma va avanti». Conclusione: «Dal mio punto di vista, lo scopo decisivo dell’architettura è il sogno, altrimenti non succede niente».

Sembra il ritratto, non così onirico, di come il Brasile, con i suoi problemi, fa succedere molte cose. Va avanti. Oscar Niemeyer risultava un ottimista puro: integralmente ateo, da sempre, ha messo in piedi la cattedrale di Brasilia con la forma di un mazzo di frecce, o di qualcosa che spicca il volo, con un crocifisso piantato in cima come una promessa e una protezione. Diceva che lì i credenti «potevano trovare il loro Dio». Per quanto lo riguardava, «si nasce, si vive, e si muore. E così è». Detta così, sembra un regola senza posti per il sogno.

Niemeyer l’ha molto spettinata, nel suo mestiere. Cambiando certe regole. Per esempio, quella del “modernismo” in architettura: le linee rigide, diritte, la squadratura, erano “autoritarie”, così ha detto. Creando curve, cupole, coppe urbane, ha sfidato “la monotonia dell’arte contemporanea”. Anche quella di Le Corbusier, con cui aveva collaborato, al complesso della sede dell’Onu, a New York (che, vista dall’alto, colpisce di più per la volta della sala dell’Assemblea generale, piuttosto che per il Palazzo di Vetro).

Niemeyer ha iniziato presto a sollevarsi da terra: la sua prima casa – la sua, dove abitava – è un box che riposa su poche colonne, dirimpetto alla meravigliosa laguna Rodrigo de Freitas.

Hanno scritto che la sua visione è “edonista”. Non contestava. Anzi, aggiungeva che a quelle curve «avevano diritto tutti». Il sogno come un diritto naturale, e sociale. È stato comunista, e militante, da quando aveva poco più di vent’anni. Fidel Castro, suo amico, ha detto che «Niemeyer e lui erano gli unici due comunisti rimasti». Ha ritirato il Premio Lenin, nel 1963, e si sentiva spesso con Hugo Chavez. Anche con tutto questo, ha smentito un altro luogo comune: secondo cui quella visione materialista, ideologica, farebbe fuori, ab origine, qualsiasi forma di romanticismo, o di “romantica alienazione”(anche quest’espressione è stata usata per descrivere chi era Niemeyer, e per avvicinarlo in questo modo a Michelangelo Antonioni).

È interessante notare come un architetto comunista come lui abbia tirato su le curve di Brasilia, o il cono della Casa della Cultura di le Havre (nel 1982), e come Le Corbusier – un grande, già molto di destra – abbia inventato le “unités d’habitation”: celle abitative per vite alienate, o ortodosse. Senza vuoti. La vita di Niemeyer può aver coinciso, non semplicemente, con l’utopia. Nei due sensi: di luogo-bene, ideale, e di luogo che non esiste. Da vedere, e da vivere, in bel po’ di posti, in Brasile.  

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