“La balcanizzazione di Fiat negli ultimi anni dell’Avvocato”

“La balcanizzazione di Fiat negli ultimi anni dell’Avvocato”

In occasione dei 10 anni della morte di Gianni Agnelli, Linkiesta ha chiesto a Francesco Zirpoli, docente di Economia e gestione dell’innovazione all’Università Ca’ Foscari di Venezia ed esperto di automotive, una riflessione sull’evoluzione di Fiat dal punto di vista industriale, dagli anni dell’Avvocato a quelli di Marchionne.  Zirpoli definisce il periodo che va dagli anni ’90 alla morte di Agnelli, nel 2003, «gli anni dell’inadeguatezza»: se fino a metà anni ’80 il Lingotto era il padrone del mercato italiano, con quote che arrivavano al 70%, si ritrova impreparato ad affrontare l’invasione delle low cost giapponesi e la concorrenza di Mercedes e Bmw nell’alta gamma. L’esternalizzazione della progettazione portò a una balcanizzazione degli stabilimenti, mentre l’alleanza con General Motors non diede i frutti sperati. Il motivo? «Si puntava a fare massa critica nei confronti dei fornitori, e non a investire sul prodotto». Una logica che rischia di ripetersi oggi, con una costante: «L’assenza di una politica industriale da parte del Governo italiano, come ai tempi dell’ultimo Agnelli».

Si è scritto spesso che il declino di Fiat coincide con quello fisico del suo fondatore. Se è forse vero a livello d’immagine, si può dire lo stesso dal punto di vista industriale?
Lo studioso Giuseppe Volpato, nel suo ultimo libro sulla Fiat, definì «gli anni dell’inadeguatezza» il decennio che va dagli anni ’90 alla morte di Agnelli, avvenuta nel 2003. Il giudizio, che condivido in toto, è così forte perché è negli anni ‘90 che l’industria dell’auto consolida i trend manifestati a fine anni ’80. Il primo: negli anni ’90 la domanda automobilistica in Italia cambia radicalmente, diventando molto più segmentata e soprattutto aperta a una varietà di prodotti maggiore rispetto al passato. Il secondo trend importante riguarda i produttori specialisti come Bmw e Mercedes, che invadono il mercato dei marchi generalisti come Fiat, Peugeot e Renault. Il terzo, infine, è l’ingresso massiccio delle vetture low cost coreane e giapponesi, in seguito alla cancellazione della legge sul contingentamento delle importazioni d’auto provenienti dall’estremo oriente. Queste alterazioni produssero una miscela esplosiva in un mercato estremamente Fiat-centrico, dove il Lingotto pesava per circa il 70% delle quote. A questo contesto turbolento bisogna affiancare il progressivo sviluppo tecnologico, con l’introduzione dell’elettronica, che cambia le spese di ricerca e sviluppo delle grandi case, allargandole a un set di tecnologie eterogenee. Detto questo, da un produttore di auto negli anni ’90 ci si sarebbe aspettato una serie di misure che ruotano sugli investimenti, chiarezza sulla strategia da adottare per occupare nuovi segmenti, un upgrading della gamma di prodotto.

E invece?
E invece Cesare Romiti (amministratore delegato dal 1996 al 1998, ndr) disegna una strategia ben chiara per la Fiat: minimizzare l’investimento nel settore auto, esternalizzare la progettazione, svuotare il portafoglio di competenze per risparmiare e mettere in sicurezza la cassaforte della famiglia Agnelli. Tuttavia, un’azienda automobilistica che pensa di mettere in secondo piano lo sviluppo dei prodotti e dell’ingegneria è destinata al declino. Le scelte devono essere più nette: o investi o vendi, le vie di mezzo – come quella adottata tra metà anni ’90 e la scomparsa dell’Avvocato – sono estremamente pericolose. Nel 2001 viene lanciata la Stilo: un flop. Un altro grande flop fu la la piattaforma 178 del 1996, che doveva produrre le “world car” come la Fiat Palio. Parlando di piattaforme, bisogna riconoscere che in quegli anni andò in scena una prodonda riorganizzazione. Solo che, invece di assistere ad un programma di condivisione di componenti e sistemi tra veicoli, di fatto le piattaforme si moltiplicano, con dei casi a dir poco eclatanti di mancata ottimizzazione delle attività di sviluppo del prodotto. Un esempio? Nonostante Lancia Y e Fiat Punto appartenessero al medesimo segmento, convidevano pochissime componenti, e tra queste nemmeno l’impianto di climatizzazione, che normalmente si riesce a montare facilmente sui diversi modelli. L’esternalizzazione della produzione, dunque, genera piattaforme che diventano vere e proprie aziende nelle aziende, balcanizzando Fiat. Una situazione che si manifesta in modo inequivoco quando Fiat va in perdita sui progetti, e smette di fissarne gli obiettivi (vedi tabella). Peccato che dal target dipende la conformazione delle piattaforme, l’impiego delle maestranze e il coinvolgimento dei fornitori. Se i calcoli non sono realistici la perdita è assicurata. Solo la Multipla rispetta gli obiettivi, ma è nel quarto anno di vita che viene capita dal mercato. Siccome dai progetti dipendono i margini sul prodotto finale, è chiaro che il problema di Fiat è il modo in cui si mettono nero su bianco i progetti. Ed è a questo punto, siamo intorno al duemila, che la società si rende conto di avere un problema di redditività.

Agli anni tra il 2000 e il 2001 risale l’alleanza con General Motors. Funzionò?
La famosa alleanza con GM va contestualizzata in un momento di crisi in cui Fiat credeva di risolvere i suoi problemi non attraverso un’inversione rotta con un approccio ingegneristico ai fornitori, ma alleandosi con un produttore per fare grandi economie di scala. Non dimentichiamoci che l’operazione aveva un motto che la dice lunga: “alleati sui costi, competitor sui mercati”. Fu Paolo Fresco, ex General Electric e uomo di grande capacità di relazione con gli americani, a traghettare un’operazione che non cambiò la logica sostanziale della Fiat di quegli anni: fare massa critica aumentando il potere d’acquisto sui fornitori, e non mettere al centro il prodotto. Non ci fu un piano reale di integrazione tra le piattaforme, quelle in comune con GM produssero scarsi risultati, con l’eccezione della nuova Punto. La mia interpretazione è che l’alleanza nacque non con il presupposto di reinvestire nell’auto, ma – nel solco di quegli anni – di minimizzare l’esborso. Per questo, alla fine, la Fiat non ne beneficiò.

Anzi, nel 2003, quando Agnelli muore, la società era sull’orlo del fallimento.
Quando morì Agnelli Fiat era nel momento più critico della sua storia: ostaggio delle banche e con poca credibilità sul mercato. Tuttavia non era fallita, ma decotta. Ricordo che nel 2005 ospitammo a Venezia un convegno con studiosi di Cambridge convinti che Fiat avrebbe fatto la stessa fine della Rover, fallita in quegli anni. In verità l’azienda era stata guidata negli ultimi anni dell’Avvocato da una coalizione che aveva un’interpretazione del business automobilistico fortemente improntata sulla finanza, che aveva prodotto delle conseguenze non banali sul piano organizzativo. Quando, nel 2004, arrivò Sergio Marchionne, la sua intuizione fu capire che in Fiat esistevano delle risorse per reagire, ma erano silenti. Ad esempio, Marchionne nomina a capo degli acquisti Gianni Coda, attualmente responsabile dell’area Emea. Coda è un ingegnere con una carriera tutta nella divisione tecnica del gruppo, e rappresenta un evidente cambio di passo nel rimettere nuovamente al centro il prodotto rispetto a una logica finanziaria. Ad esempio, prima si fissava il prezzo al quale il fornitore doveva progettare e produrre un componente, mentre dopo il processo diventa condiviso, e il rapporto tra fornitore e azienda diventa ancorato a discussioni tecniche, e solo dopo si negozia sul prezzo. Tra fine anni ’90 e inizio duemila ai fornitori si chiedeva esclusivamente un taglio dei costi. Quando Coda arrivò, decise di porre grande enfasi al confronto tecnico con i fornitori, e la divisione acquisti si ripopola di soggetti in grado di interloquire non solo e non tanto a livello finanziario. È un passo importantissimo se pensiamo che fino a poco tempo prima Fiat esternalizzava l’85% della produzione, creando una situazione in cui ingegneri sviluppavano prodotti in contrapposizione con i colleghi degli acquisti, in una logica fuori controllo.

Il colpo di Marchionne, oltre alla riorganizzazione interna, è l’acquisizione di Chrysler nel 2008. Eppure Fiat, in Italia, continua a perdere quote di mercato. Perché?
Molti commentatori leggono l’operazione in un’ottica d’integrazione finanziaria, io ritengo sia un caso più unico che raro di una reale volontà di sviluppare prodotti congiuntamente. Notoriamente nell’industria dell’auto fare margini è difficile: servono quindi prodotti in grado di mantenere stabili i margini nei periodi di debacle come questo. Con Chrysler stanno lavorando bene sull’integrazione delle piattaforme, che è una delle cause del ritardo nel lancio di alcuni nuovi prodotti. Purtoppo vale lo stesso discorso degli anni ’90: senza investimenti una strategia di integrazione, seppure con risultati significativi, non può reggere nel lungo periodo. Solitamente quando un’azienda acquisisce un’altra impone regole e procedure, questo non è avvenuto tra Fiat e Chrysler: stanno davvero provando a mettere insieme il meglio dal punto di vista tecnico. A Detroit, fatto insolito nell’industria dell’auto, i manager della Chrysler si sentono fortemente rispettati. Il problema è in Italia, dove l’azienda non ha le idee chiare: l’annuncio della cassa integrazione per Melfi, Marchionne dice finalizzata al riattrezzaggio, ha sorpreso un po’ tutti. Qui però dovrebbe intervenire il Governo, con una politica industriale ben precisa. È lui il grande assente, tanto ai tempi di Agnelli che oggi.

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