Jozef Glemp
(18 dicembre 1929 – 23 gennaio 2013)
Cardinale polacco, primate della Chiesa per quasi trent’anni (1981 -2009), successore di Stefan Wyszynski, il cardinale combattente nei tempi della Polonia comunista. E, soprattutto, coevo di Lech Walesa e di Karol Wojtyla, cioè di due polacchi che hanno rivoltato la storia del loro Paese, e, in parte, del mondo.
Tutte queste persone-personalità (soprattutto le le ultime due) lo hanno aiutato, e obbligato, ad andare avanti. Contro il suo carattere, le necessità, e una certa morale della Storia polacca. Glemp – figlio di un minatore partigiano durante la guerra – era sostanzialmente un pio prete conservatore, più che un principe della Chiesa costretto ad affrontare dei massimi passaggi storici.
Era un uomo prudente, mediatore, a volte indeciso, con un bel po’ di pregiudizi, propagandista della missione spirituale del cattolicesimo, in un Paese dove essere cattolici (il 95 per cento) era anche un passaporto di lotta. Tutto questo, al centro di snodi unici: la Polonia del dopoguerra era il Paese di uno dei più radicati antisemitismi, era il Paese di Auschwitz e quello di un comunismo duro, anche antisemita, ma accorto nel patteggiare con la Chiesa. Inevitabilmente: era come mediare con l’altra bandiera e con l’inconscio nazionale.
Glemp non fronteggiava il potere – come il principesco Wyszynski – né i pregiudizi, che, in parte, erano il suo bagaglio. Nella Polonia che inventava Solidarnosc, lui, eletto primate da Giovanni Paolo II (nel 1981) invitava a non manifestare troppo, a non rischiare, ma a pregare. Come un conservatore naturale, diceva che il suo ruolo coincideva con “la conservazione della Chiesa”.
Sosteneva con giudizio (il suo) Lech Walesa e gli operai di Danzica che cambiavano il corso della Storia, trattando con il governo un’accettabile forma di adattamento alla legge marziale. Walesa lo invitava, col massimo rispetto, ad avere più coraggio: il primate avrebbe appoggiato gli scioperi, senza troppo voler capire che quella forza dirompeva, più che trasformare gradualmente. Quando la rottura, o meglio l’esaurimento, del regime si perfezionava, nel 1989, Glemp assumeva, non modestamente questa volta, un ruolo fondamentale nella formazione del primo governo libero di Tadeusz Mazowiecki.
Era la voce “politica” della Chiesa e dei suoi valori. Proclamati, con un certo accanimento, anche dopo, a democrazia funzionante e stabilizzata: no alla separazione fra Chiesa e Stato, insegnamento dei precetti cristiani nelle scuole, restrizione più completa possibile alle leggi sull’aborto. Karol Wojtyla papa lo ha aiutato, con determinazione, a superare se stesso nel rapporto tragico fra la Polonia e gli ebrei.
Glemp non ha superato se stesso, ma ha obbedito. Quando un gruppo di suore carmelitane impiantava un convento attaccato al campo di Auschwitz, il Vaticano mediava per farlo togliere, e il primate se ne usciva con questi concetti: «Stimati ebrei, non vedete che le proteste contro le sorelle offendono i sentimenti di tutti i polacchi e la nostra sovranità conquistata con così grandi difficoltà?». Aggiungeva: «Avete a disposizione di un gran potere dei media in molti Paesi. Non usate per diffondere sentimenti antipolacchi. Cari ebrei, non parlateci dalla posizione di un popolo “dall’alto”, e non dettateci condizioni impossibili da sottoscrivere».
Le comunità ebraiche, e non solo, lo accusavano di antisemitismo: lui si sarebbe “dispiaciuto” (un po’) in un viaggio americano del 1991. Ma c’era poco da aggiungere: era una specie di richiamo della foresta, una vecchia Polonia che parlando “ai cari ebrei”, in quel modo e con quegli stilemi, escludeva che quegli ebrei fossero dei concittadini. Ma qualcosa d’altro, un’altra parte con cui discutere. Nel Paese di Auschwitz, e dove i polacchi ebrei erano stati massacrati nella loro quasi totalità.
Glemp si sarebbe anche rifiutato di accompagnare il presidente polacco (ed ex comunista) Aleksander Kwasnieski a visitare degli storici luoghi di pogrom antiebraici, come quello di Jedbawne, nel 1941: un massacro compiuti da polacchi, con 1.600 ebrei bruciati vivi. Il cardinale reagiva così: «Non voglio che i politici impongano alla Chiesa atti di contrizione per crimini imputabili a certi gruppi di persone».
Jozef Glemp è stato soprattutto un tipo di polacco (e di prete) così fatto: antiquato, a voler essere magnanimi. E sorpassato – si spera – nella Polonia di oggi. Wojtyla comunque ce l’aveva fatta: disponendo la rimozione del convento attiguo ad Auschwitz. E il prudente Glemp obbediva. Secondo il suo carattere. Ma non poteva far altro.
Due ragazzi in Iran
Mohammad Ali Sarvari aveva 20 anni, e Alireza Mafiha, 23. Sono stati impiccati il 16 gennaio nel centro di Teheran, esposti a una folla di qualche centinaio di persone. L’imputazione: furto e aggressione “per strada”. Cioè, in pubblico. Nel novembre scorso: ripresi da una telecamera di sicurezza. Hanno rubato 20 dollari e una borsa a un uomo, dopo essere saltati giù da un motorino, guidato da due complici (condannati a dieci anni e 74 frustate).
Non si sa se l’aggredito sia stato minacciato con un machete, o sia stato effettivamente ferito. Comunque non è morto, e non rischia di morire. I due ragazzi sono stati dunque ammazzati per aver rubato. Si parla di 20 dollari, ma se anche fossero stati 200mila, la sostanza dell’orrore non cambierebbe in nulla. Anche perché è difficile immaginare che un cittadino iraniano “della strada” possegga oggi quei soldi e li porti in giro a spenderseli come vuole.
Chi li ha (molti di più) appartiene, in testa, al primo livello di quella società: il potere iraniano, gli uomini della Repubblica islamica, il presidente pauperista e corrotto, i preti di Stato, le guide “spirituali”, gli ayatollah, eccetera. Quello schifo ultratrentennale non si smentisce nei suoi caratteri-base: la dittatura “in nome di Dio”, la pratica dell’arricchimento e della corruzione, la pena di morte (già, in sé, un obbrobrio) largamente applicata a chi non ci sta, a chi non ce la fa, a chi è se stesso.
La morale di Stato, in Iran, impicca anche chi ruba senza uccidere, chi ruba perché non ha di che sopravvivere, chi è omosessuale, chi non crede in quel Dio, o in nessun Dio, o semplicemente, “dissente” (basta questo, per finire appeso al cappio di una gru) da quella morale.
Alireza e Mohammed erano due disoccupati (come milioni di iraniani) senza un soldo. Due poveri. In un Paese dove i minimi beni necessari, venduti nelle botteghe statali, hanno prezzi inaccessibili alla maggioranza. Un Paese sotto embargo internazionale (e non solo americano): ma non è questo che conta, almeno qui. Conta solo, o dovrebbe contare sopra di tutto, l’ultima scena.
Alireza, con i capelli rasati, che piange sulla spalla del boia poco prima di essere appeso, e Mohammed, con molti capelli neri, affiancato all’altro boia. Guarda un po’a destra, con gli occhi molto aperti, è vestito con una camicia senza collo, di raso, o di velluto, nero. Il primo boia mette un braccio sulla spalla del ragazzo che piange. Un minimo gesto, di uno che ha un lavoro: impiccare un povero di 23 anni, che pensava di sopravvivere rubando “sulla strada”.
Il giudice che li ha fatti ammazzare, ha sentenziato che «avevano dichiarato guerra a Dio». Questo è sostanzialmente l’Iran interno e pubblico di oggi. Poi c’è l’Iran “internazionale”, che vende petrolio alla Cina, che inveisce contro il “satana americano”, che rifornisce di armi e miliziani il dittatore siriano Assad, che promette la distruzione di Israele. È un corollario, trafficante e retorico, del primo.