Pier Luigi Bersani insiste sul rinnovamento. Dopo la nomina di Laura Boldrini e Pietro Grasso alla presidenza di Camera e Senato è la volta dei capigruppo. Basta vecchi esponenti del partito. Nessuna proroga per gli ex presidenti Anna Finocchiaro e Dario Franceschini. Sorprendendo un’altra volta i suoi parlamentari, il segretario punta su Luigi Zanda e Roberto Speranza.
Particolarmente significativa la nomina del nuovo capogruppo a Montecitorio. Il trentaquattrenne già segretario regionale in Basilicata è la dimostrazione evidente della strategia di Bersani. «Stiamo cercando di far girare la ruota. Di valorizzare le esperienze e utilizzare nuove forze».
Una rottamazione in ritardo, insomma. Una conferma del rinnovamento chiesto più volte dall’inedito asse tra renziani e “giovani turchi”. L’obiettivo è duplice. Mettere all’angolo i grillini sfidando il MoVimento Cinque Stelle sul suo stesso terreno, quello della novità e del cambiamento (e uguali criteri saranno utilizzati nella scelta dei ministri di un eventuale governo Bersani). E prepararsi alla prossima campagna elettorale, qualora dovesse naufragare la nascita di un esecutivo guidato dal segretario Pd.
Tutti d’accordo? Non proprio. L’elezione di Roberto Speranza crea qualche malumore all’interno del partito. Non tutti i deputati gradiscono l’idea di sacrificare i big del partito sull’altare del confronto con i grillini. Soprattutto in una fase in cui i parlamentari a cinque stelle non sembrano essere particolarmente disponibili al dialogo.
Ma è la scelta dei nuovi presidenti di gruppo a far innervosire più di qualche deputato. Altro che consultazione democratica. Come era già avvenuto per i presidenti di Camera e Senato, i candidati proposti da Bersani vengono presentati ai parlamentari all’ultimo momento. Calati dall’alto, senza alcuna possibilità di confronto.
E così si rischia il caso. Al Senato l’elezione di Zanda avviene per acclamazione, è sufficiente un lungo applauso. Alla Camera il pomeriggio è molto più agitato. Alla richiesta di votare per acclamazione si oppone Luigi Bobba, ricordando che il regolamento prevede il voto segreto.
Si va alla conta. Su 293 deputati, sono 284 ad esprimersi. Spuntano 53 schede bianche, 6 nulle, ben 25 disperse. Alla fine il presidente viene eletto con 200 preferenze. «È andata bene, un certo numero di voti contrari è fisiologico» ragionano al Nazareno. In realtà nel partito lo scontento è forte. In molti lamentano di non essere stati coinvolti nella scelta del capogruppo. Qualcuno inizia a non condividere la strategia del segretario. Digeriti i mal di pancia, la spunta ancora la linea bersaniana. Almeno fino a giovedì, quando la delegazione Pd salirà al Colle per incontrare il capo dello Stato.