Sono più di quindici anni che le cose sono cambiate per la moda italiana. Prima della crisi finanziaria c’è stato l’effetto Timisoara, il distretto in Romania che ha sostituito tanti poli produttivi italiani, finendo per ospitare tantisavoir faire italiani. Poi è seguita quella Prato ben disegnata dalla penna di Edoardo Nesi in Storia della mia gente, in cui la Cina Made in Italy ha sostituito il rumore delle macchine tessili che fabbricavano l’Italia che si vede addosso alla gente in tutto il mondo. E dopo la Cina è venuto il Vietnam, e poi chissà. Ma perché partire dalla produzione per descrivere la moda italiana? Perché è la parte più importante: fa più Pil, e detiene la maggior parte del know how.
Lo shopping straniero – Ma perché comprano?
Sui giornali però non arrivano sempre i cassintegrati del settore, ma con più immediatezza le acquisizioni dei brand italiani da parte di qualche investitore estero. Solo negli ultimi anni Ferré, Valentino, Fendi, Bulgari, Sergio Rossi, Bottega Veneta, Gucci, Loro Piana ma come descriveva pochi giorni fa Fabiana Giacomotti su Il Foglio, anche Mandarina Duck e Brioni.
Tutta la fetta di acquisizioni più recenti è connotata da uno stile nuovo, diverso da quello del Private Equity – ora molto fermo sulle gambe – che compra, realizza, estrae utili da una ristrutturazione e rivende. Gli investitori stranieri di oggi comprano con il vantaggio del prezzo, ma non tutti con le stesse buone o cattive intenzioni. C’è chi è attratto dalla moda italiana come una solida affermazione di status sociale ed è talmente ricco che compra un’azienda alla moglie con la stessa facilità con cui compra un vestito. Benché agli investitori dei fondi sovrani arabi venga spesso incollata l’etichetta dell’acquisto dettatto dalla volontà di comprare lo stile occidentale, anche qui è ben chiaro il linguaggio del ritorno sugli investimenti.
Altro approccio è quello dell’investitore cinese, non lontano da quello visto in Gomorra, in cui la fabbrichetta paga oro chi è disposto a mostrare il “come si fa” l’abito, fattura e disegno, taglio e cucito, risvolto e confezione. Gli investitori che girano a frotte la Brianza e la provincia emiliana vagano per le fabbriche con in mente il “fare”: fotografano gli impianti soffermandosi con sguardo adorante sulle manualità dei dipendenti, prestando un’attenzione maniacale ai processi ed ai modi in cui le nostre maestre del taglioprendono in mano i tessuti, e quale percorso fanno dentro alla fabbrichetta, spesso sotto o di fianco alla villa.
Ma perché vendiamo?
Di fronte alle acquisizioni estere è facile dire che anche nella moda “perdiamo i pezzi”, ma chissà mai perché si vende? Ci sono le penny stock, aziende che in Borsa valgono meno di un euro, e allora è facile metterci le mani e in un baleno acquisirne l’intera proprietà. Ma non sono solo i corsi azionari ballerini a rendere le aziende contendibili. Il primo problema di oggi è la liquidità, questa dispersa, che alletta molte imprese pronte a far entrare un investitore con la valigetta piena di soldi: che siano euro, dollari o yuan non fa differenza, quando si sta per chiudere non si guarda al passaporto dell’investitore. Ma le aziende della moda vendono anche perché magari non c’è nessun figlio che abbia la voglia o la capacità di portarle avanti, e spesso è lo stesso padre-imprenditore a dire, come nel libro di Franco Cesaro L’ho fatto per voi, che descrive molto bene le difficoltà del passaggio generazionale, “ piuttosto che lasàrghe l’asienda a quel deficiente de me fiòlo la bruso”.
Colpe e effetti
È difficile imputare ad un solo soggetto le colpe di una strada che si è fatta difficile per tanti motivi. Perché la manodopera a basso costo è ormai una costante che aggredisce tutte le imprese manifatturiere italiane non è una colpa degli imprenditori, ma il mancato passaggio generazionale si.
La mancata registrazione dei marchi non è una colpa della politica, ma la mancata protezione si. Il continuo ricorso al nero ed all’evasione non è una colpa delle banche, ma la mancata valutazione degli asset intangibili si.
Non c’è sempre una colpa oggettiva dietro al “costretti a vendere” delle nostre imprese della moda, e nemmeno vendere è sempre una tragedia. La stessa opinabile capacità imprenditoriale italiana può trovarsi nell’investitore straniero, che talvolta crea nuovi posti di lavoro, valorizza il brand e si esprime con una efficiente e più ampia capacità distributiva, e tal altre si schianta o asciuga l’impresa con licenziamenti a tappeto che la privano di manodopera qualificata.
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Cosa perdiamo davvero?
Dobbiamo disperarci di più se Valentino passa in mani qatarine, magari facendo meglio della proprietà italiana, o se chiudono 200 pmi da 5 milioni di fatturato annui , che magari servivano due o tre delle grandi griffe e detenevano il vero know how?
La Cina viene in Italia e re-ingegnierizza prodotti e processi italiani chiedendosi da dove cominciare, come procedere e come creare. Ma non sempre ci riesce, perché c’è tutto quel pacchetto di conoscenze, applicazioni manuali, intuizione creative, valorizzazioni estetiche che un non so che di neuronale trasforma in manuale, e allora il Made in Italy si scopre Brain in Italy, marchio coniato di recente da Franco Barin, un pioniere dell’italianità creativa diffusa e da scoprire e difendere.
Perché dove si perdono le imprese perdiamo il significato del gesto creativo, quel linguaggio che anche Roland Barthes ha ricercato nel suo Il senso della moda già nel 1957.
Nonostante ci siano in Italia corsi per maestri calzaturieri che sono seguiti quasi esclusivamente da giovani stranieri, il fare italiano è sempre un po’ protetto dalla capacità unica di creare sempre cose nuove, tanto che alla fine Manolo Blahnik viene a farsi fare le scarpe di cui si parla tanto in Sex and the City a Vigevano.
Ma la politica, quella che non capisce la moda se non nelle serate di gala al Consolato, e lascia a Matteo Renzi la fascia dell’unico attento al settore cosa fa? Le mille associazioni del settore moda cosa fanno? Basterebbe fare un confronto tra la nullità di certi siti italiani dedicati alle sfilate ed ai buyers e, per esempio Brits in Paris…
È qui il ventre molle della moda italiana. Il terreno fertile per aggiungere quella riga di gesso di innovazione che trasforma un ottimo prodotto in un prodotto vendibile, facilmente distribuibile, in cui servizio, design, materia prima sono tutt’uno. Serve invece una strategia innovativa, per evitare di subirla da Inglesi, Francesi e Spagnoli.
Politica lontana e distratta, settori frammentati e messi in ginocchio da credito e materie prime sempre più care, rappresentanze vecchie, litigiose che spesso negano le genialità dei giovani imprenditori (non solo stilisti): niente di nuovo sotto il sole, e a pagare non sono solo i colossi noti nel mondo ma anche i piccoli produttori, veri detentori del valore italiano, ma quelli che fanno più fatica, perché oggi fare moda in Italia, dalla a alla z, è un lusso. Eppure per ogni Golia che cade in mani estere ci sono mille Davide che non hanno protezione, attenzione, ma conservano una mira strepitosa per ciò che è il bello, il ben fatto, e soprattutto si vende.