Prosegue lo stallo dopo le consultazioni «lampo» di Napolitano. I democratici al Colle si dicono contrari al «governissimo» proposto stamattina da Pdl e Lega, ma a sorpresa annunciano il loro sostegno a qualunque iniziativa del Presidente. Al termine dei colloqui, il Quirinale annuncia: «Napolitano si prende un momento di riflessione». Esplicito Enrico Letta, dopo aver incontrato il presidente Napolitano: «I troppi no espressi qui a un governo istituzionale, a un governo del presidente, oltre ai no ascoltati durante le consultazioni, rischiano di negare che il cambiamento possa effettivamente avvenire, nelle istituzioni come nell’economia e nelle società. Allora abbiamo espresso fiducia e profonda gratitudine al presente, a cui non mancherà il nostro sostegno alle decisioni che prenderà».
In questo intreccio fra incarico per Palazzo Chigi, lista per i principali dicasteri e possibile candidato al Colle circolano alcuni nomi eccellenti, come quello di Fabrizio Saccomanni, direttore generale di Bankitalia, Franco Gallo, presidente della Corte Costituzionale, Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte Costituzionale e ideatore con Pietro Marcenaro della Biennale Democrazia, Annamaria Cancellieri e Fabrizio Barca, rispettivamente ministro dell’Interno e alla Coesione nel governo Monti, Pier Carlo Padoan, capo economista e vice segretario generale dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Tutte personalità di chiara fama internazionale, come vorrebbe Giorgio Napolitano, che ora sente l’urgenza di chiudere la partita anche per gli inquietanti segnali che giungono dalle piazze finanziarie.
Si tratterebbe dunque – per quanto riguarda la prima pedina da muovere per Palazzo Chigi – di un governo «del presidente» o «di scopo», affidato a una personalità autorevole e di forte caratura istituzionale, in grado di poter contare su un consenso ampio e trasversale. Una forma di governo esclusivamente italiana, già vista nascere in altre legislature per far fronte a situazioni di confusione e lacerazione politica e favorire la ricostituzione di una solidale maggioranza governativa. In particolare, come quello di Ciampi, giunto dalla Banca d’Italia alla guida del primo governo della storia della Repubblica presieduto da un non parlamentare.
Non si tratterebbe dunque di una novità nella storia repubblicana. Per ovviare alla cronica precaria governabilità in Italia, la politica ha spesso fatto ricorso alla creatività di formule originali o alternative per giustificare cambi di maggioranza o di presidente del consiglio senza passare necessariamente dalle urne: dai governi balneari a quelli a termine, dall’esecutivo di solidarietà nazionale a quello istituzionale, dal governo di emergenza a quello tecnico. Denominazioni diverse ma un unico scopo: gestire una difficile fase di transizione con orizzonti di breve durata.
Il governo Ciampi, il precedente più prossimo all’odierna situazione, ha rappresentato un momento di profonda rottura rispetto agli esecutivi precedenti. È rimasto in carica dal 28 aprile 1993 al 10 maggio 1994, per un totale di 377 giorni, ovvero 1 anno e 12 giorni. Oltre a essere stato il primo governo della storia della Repubblica a essere guidato da un non parlamentare, è stato anche il primo dal 1947 cui hanno partecipato i post-comunisti.
Nell’opinione di molti – in modo più o meno corretto – è stato il governo che ha dato inizio alla cosiddetta Seconda Repubblica, attraverso la nota riforma della legge elettorale, condotta sulla scia di un referendum abrogativo che modificò la norma in vigore fino a quel momento. Da quella riforma del 1993, che ha introdotto il sistema maggioritario corretto con una quota proporzionale, ha preso il via, nell’accezione comune, la stagione dell’alternanza.
Altro precedente cui fare riferimento è l’esecutivo formato da Lamberto Dini, il primo governo interamente tecnico della Repubblica italiana. Era la fine del 1994: appena nove mesi dopo le elezioni, la Lega Nord uscì dalla maggioranza che sosteneva il primo governo Berlusconi. In parlamento si formò una nuova maggioranza che portò a Palazzo Chigi Lamberto Dini, ex direttore generale della Banca d’Italia nonché ex ministro del Tesoro nel governo Berlusconi. Composto interamente da esperti e funzionari non eletti in Parlamento, è rimasto in carica dal 17 gennaio 1995 al 17 maggio 1996, per una durata di un anno e quattro mesi. Con un’età media dei ministri di 61 anni non si può dire che abbia rappresentato una novità dal punto di vista generazionale. Scarsa anche la presenza femminile, con un’unica donna ministro, Susanna Agnelli agli Esteri, e solo due donne fra i sottosegretari, su un totale di 26 ministeri, di cui 19 con portafoglio e 7 senza.
Anche Giuliano Amato si è cimentato nell’impresa, sebbene in condizioni radicalmente diverse. Il suo esecutivo semi-tecnico fu infatti formato nel pieno dello scoppio dello scandalo di Tangentopoli e non è possibile annoverarlo fra i governi tecnici perché ne hanno fatto parte anche politici. E’ rimasto in carica dal 28 giugno 1992 al 28 aprile 1993, per un totale di 304 giorni, ovvero 10 mesi. Aveva 25 ministeri in totale, di cui 3 senza portafoglio. Due le donne ministro, Rosa Russo Iervolino all’Istruzione e Margherita Boniver al Turismo.
In tutti e tre i casi, gli esecutivi Amato, Ciampi e Dini hanno concluso la legislatura arrivando alle elezioni. Nel caso dei governi guidati da Dini e Ciampi si è avuto il voto anticipato. Per quanto riguarda il governo Amato invece si è arrivati alla scadenza naturale della legislatura. Ora, se il tentativo di Bersani non andasse in porto neanche dopo la «moral suasion» intentata da Napolitano nei confronti delle principali forze politiche, un sussulto di responsabilità nazionale, invocato in modo esplicito dal Quirinale, potrebbe condurre a una strada simile.
L’urgenza di un governo stabile è stata ribadita più volte dal Capo dello Stato, anche quando ha assegnato il pre-incarico a Bersani. Alla scadenza del suo Settennato, Giorgio Napolitano non vuole quindi un governo qualsiasi, ma uno in grado di traghettare il Paese fuori da una tremenda crisi economica che necessita di riforme incisive e durature. Molto dipenderà anche dallo scopo che le principali formazioni politiche assegneranno al prossimo esecutivo, se dovrà cioè essere solo elettorale, con pochi punti di programma, o se dovrà avere vita più lunga, per consentire a tutti di lavorare mossi non solo dall’intento comune di varare una riforma della legge elettorale, ma anche di dare stabilità al sistema.
Ancora una volta, forse l’ultima prima della scadenza del suo mandato, il Capo dello Stato indica come priorità necessarie la coesione nazionale, la via delle riforme strutturali, da affrontare su un doppio binario, interno ed europeo, e la tenuta dei conti da considerare come la base di partenza per innescare la crescita. Spetterà poi alle principali forze politiche decidere se perpetuare la via della contrapposizione assoluta o seguire le indicazioni che giungono dal Quirinale per cercare di uscire dal marasma attuale.