Quella che era una un’idea di nicchia, riservata a riviste specialistiche e think tank, è ormai diventata mainstream: uno dei great game dei prossimi anni avrà come palcoscenico l’Africa, il continente che, per usare le parole dell’Economist, è passato da «hopeless» a «hopeful» nel giro di un decennio, grazie a una combinazione di fattori: l’apertura al multipartitismo, il dinamismo della società civile e, soprattutto, un’economia in ascesa inarrestabile. Il settimanale britannico ha recentemente ospitato un vivace dibattito sulla natura di questo boom e sui suoi limiti, come l’eccessiva dipendenza dalle materie prime e la debolezza del settore manifatturiero. Elementi che non ostacolano il crescente interesse per il continente nero da parte di cancellerie, diplomazie, servizi di intelligence.
L’Africa è ormai diventata il teatro di una sfida, al tempo stesso economica e geopolitica, che coinvolge, oltre agli Stati Uniti, gli ormai celebri Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), che hanno appena chiuso il loro quinto vertice annuale a Durban. Un summit che ha coinciso con la prima visita nel continente nero del presidente cinese Xi Jinping, sbarcato lunedì in pompa magna a Dar er Salaam, in Tanzania, per confermare l’asse privilegiato del Dragone.
C’è una lunga letteratura sulla presenza di Pechino in Africa. Nel 2009 la Cina ha scalzato gli Usa come primo partner commerciale e negli ultimi quattro anni, dopo il sorpasso su Washington, gli scambi bilaterali sono più che raddoppiati, passando da 91 miliardi di dollari a 198.
Il rapporto si basa sul classico scambio, materie prime versus infrastrutture, ma negli ultimi anni i cinesi hanno avviato molte produzioni. Un esempio su tutti, l’industria tessile in Kenya, Lesotho e Madagascar, in modo da sfruttare l’African growth and opportunity act, un accordo con cui gli Stati Uniti offrono un trattamento preferenziale ai capi d’abbigliamento di alcuni Paesi sub-sahariani.
Si parla spesso delle accuse di neo-colonialismo riversate su Pechino e dei frequenti episodi anti-cinesi, dal Sudafrica allo Zambia, dal Ghana al Malawi. Al contrario, viene scarsamente sottolineata la concorrenza al Dragone da parte degli altri Brics, in particolar modo l’India e il Brasile.
Nuova Delhi si è affacciata all’Africa in tempi recenti. Il 2007 è stato l’anno della prima visita di un premier indiano, Mohammed Singh, che ha portato alla firma di accordi con Angola, Uganda, Ghana e Sudan. Lo scopo primario, ridurre la dipendenza dal Medio Oriente, per un Paese costretto ad importare buona parte delle proprie fonti energetiche.
Gli scambi sono cresciuti in maniera vertiginosa negli ultimi anni. Nel 1991 erano pari a 967 milioni di dollari, nel 2010 a 51 miliardi, con l’ambizioso obiettivo di raggiungere quota 90 miliardi entro il 2015.
Il cuore delle relazioni economiche resta il mercato delle materie prime – carbone, uranio e soprattutto petrolio – ma gli investimenti sono sempre più diversificati e non si limitano ai partner tradizionali, i paesi anglofoni dell’Est e gli Stati rivieraschi dell’Oceano Indiano, coprendo una vasta gamma di settori, dalle infrastrutture alla telefonia, dall’industria automobilistica a quella farmaceutica, dell’agroalimentare ai trasporti.
Rispetto alla Cina, Nuova Delhi promette un approccio differente, basato sulla valorizzazione della manodopera locale, punta sul soft power di una democrazia – per quanto ricca di limiti e contraddizioni – nonché sull’eredità culturale del Mahatma Gandhi, che proprio a Durban si fece le ossa come avvocato.
Accanto a Cindia nell’ultimo decennio si è affiancato un altro ambizioso esponente dei Brics, il Brasile, che può contare sul vantaggio di antichi “legami”, risalenti all’epoca dell’impero portoghese. Si stima che fino all’abolizione della schiavitù, nel 1888, abbia importato dall’Africa un numero di schiavi dieci volte superiore a quello degli Stati Uniti.
Negli ultimi anni, a partire dalla presidenza Lula, si è assistito a un vero e proprio salto di qualità nelle relazioni con l’Africa. I numeri sono ancora distanti da quelli cinesi, e persino da quelli indiani, ma indicano che il guanto della sfida è stato lanciato: dai 4,3 miliardi di dollari del 2002 gli scambi commerciali sono passati ai 27,6 miliardi del 2011.
Il Brasile sta cercando di trasformare in business quello che Lula ha chiamato «il debito storico» nei confronti del continente nero. I progetti di cooperazione si sono moltiplicati e gli aiuti esteri di Brasilia, che superano il miliardo di dollari, prendono spesso la strada dell’Africa. Un esempio? Il governo di Dilma Roussef ha fatto aprire in Mozambico una fabbrica di farmaci retrovirali per frenare la diffusione dell’Aids. Ma la neo-potenza sudamericana – ormai la sesta economia del pianeta, dopo avere soppiantato la Gran Bretagna – vuole soprattutto espandere l’area dell’export per le proprie aziende.
Brasilia non è Pechino: essendo un grande produttore di petrolio e di derrate alimentari, non ha grandi necessità di import. I progetti infrastrutturali non mancano: al Kenya sono stati prestati 150 milioni di dollari per costruire strade e decongestionare il traffico di Nairobi, in Angola, ex colonia portoghese, uno delle principali porte d’ingresso del continente – assieme all’altro ex dominio lusofono, il Mozambico – la società brasiliana di costruzioni Odebrecht è presente da anni.
La strategia è mista, investimenti privati uniti agli aiuti governativi. Un impegno a largo raggio, che ha portato il Brasile ad aprire ben 36 ambasciate nel continente, mentre è in arrivo la trentasettesima, in Malawi. Una grande banca di investimento di San Paolo, la BTG Pactual, ha lanciato un fondo da 1 miliardo di dollari, focalizzato sul continente nero. In Angola, un accordo tra governi consente ai brasiliani di addestrare il personale militare di Luanda.
Il numero di studenti africani nel Paese sudamericano è in netta crescita, grazie a programmi concepiti ad hoc. C’è addirittura un progetto di fibra ottica per connettere il Sudamerica con l’Africa Occidentale. Anche se alcuni affari sono entrati nel mirino delle associazioni per i diritti umani. Sembra che alcune compagnie brasiliane abbiano venduto cluster bombs allo Zimbabwe di Mugabe.