Nelle ultime settimane si è fatto uso (e abuso) del termine “dissidenti” per catalogare la dialettica interna al gruppo parlamentare del Movimento 5 stelle, una parte del quale propone una ricetta diversa da quella votata a maggioranza e benedetta da Grillo. Nella fattispecie, archiviato l’episodio del voto per l’elezione di Piero Grasso alla presidenza del Senato, il confronto riguarda ora la posizione dei grillini rispetto alla formazione del governo.
La linea ufficiale, scelta a maggioranza dai parlamentari, è quella di non dare la fiducia ad alcun esecutivo Pd o di larghe intese. Né si è proposto un nome per un governo alternativo da portare a Napolitano. Meglio procedere in solitaria nell’attesa di approdare nelle commissioni dove deputati e senatori vogliono lavorare a proposte di legge e provvedimenti. Sulla tesi converge gran parte degli eletti, con in testa i capigruppo Crimi e Lombardi e un’ala “ortodossa” che, dicono i ben informati, può contare su nomi forti come quelli di Riccardo Nuti, Roberto Fico, Alessandro Di Battista e altri.
Al fianco della linea ufficiale viaggiano posizioni minoritarie che relegare indistintamente in un solo calderone costituirebbe un errore. La geografia del dissenso, o comunque della dialettica interna al Movimento, prevede diverse sfumature. «Non siamo tutti uguali – confermava pochi giorni fa la deputata Giulia Sarti a Linkiesta – ci sono persone che vogliono davvero fare i dissidenti, elaborare la rosa dei nomi è una cosa ben diversa dal dare la fiducia al Pd».
Davanti a questo bivio si dividono le strade della minoranza. Da una parte c’è il folto gruppetto guidato da Giulia Sarti che, pur rifiutando qualsiasi alleanza coi democratici, chiede che il M5s formuli una serie di proposte accompagnate da una rosa di nomi per un governo di scopo a trazione 5 stelle. «Significa» spiegava a Linkiesta il senatore Lorenzo Battista «far convergere i numeri, che non abbiamo alla Camera e al Senato, sulle nostre idee».
Al fianco della Sarti, che ha enunciato la sua ricetta anche al pranzo con Grillo, si schiererebbero i parlamentari Mara Mucci, Lorenzo Di Battista, Stefano Tacconi, Bartolomeo Pepe, Fabrizio Bocchino e altri convinti della necessità di fare un passo in più, sfilarsi dall’impasse e presentare una proposta concreta alle forze parlamentari, pur ribadendo il no alla fiducia ad un governo Pd.
Nello scacchiere del M5s c’è però spazio per un’altra ala, quella di chi, come il deputato siciliano Tommaso Currò, ha chiesto un dialogo con il Pd. La sua intervista a La Stampa ha destato grande scalpore tra base e colleghi. I boatos lo davano in uscita verso il Gruppo Misto, ma lui, dopo qualche tentennamento, ha ribadito l’intenzione di restare nei ranghi del Movimento. Tra i sottoscrittori dell’istanza dialogante figurerebbero, tra gli altri, i siciliani Francesco Campanella, Mario Michele Giarrusso e la toscana Alessandra Bencini, che a fine marzo diceva: «mi fido più a sinistra che a destra, Bersani lo vedo più autorevole, meno compromesso di altri». Poi emergono singole posizioni come quella del senatore Marino Mastrangeli che, in un’intervista all’Huffington Post, propone di far votare alla Rete le decisioni inerenti la linea politica del M5s, compreso l’eventuale dialogo col Pd.
Resta il fatto che, ad oggi, di fronte alla smania mediatica di stanare dissidenti e fuggiaschi non risultano defezioni o espulsioni. Sembrano lontanissimi i casi Salsi e Favia o l’allontanamento di Tavolazzi: pare chiara la scelta di un approccio morbido che apra spiragli distensivi nel muro dell’intransigenza, nonostante le sferzate del prof Becchi («i dissidenti come Giuda») e quelle di Walter Vezzoli, l’autista-ombra di Grillo («via i traditori, il cancro va rimosso quando è piccolo»). Ora c’è dialettica, si decide in assemblea, prosegue il dibattito. Per adesso, e chissà per quanto, il ritornello è chiaro: «se il gruppo non vuole praticare la nostra idea, sosterremo con convinzione la decisione della maggioranza».