Questa Italia non avrebbe più spazio per un Andreotti

L’apice del potere lo toccò negli anni ’80, ma fallì

Banche e curia, sport e giornali, palazzinari e boiardi delle partecipazioni statali: Giulio Andreotti aveva creato una ragnatela vasta, intricata, trasversale, la rete del suo potere reale. Tessuta in silenzio, con cura, era piena di luoghi oscuri, ma non si può certo dire che fosse ignota o segreta.

Tra i molti luoghi comuni su Andreotti e l’andreottismo c’è che il suo pragmatismo fosse fine a se stesso, o meglio, teso soltanto a conservare il proprio potere. Invece non è solo così: c’era del metodo e della strategia nell’astuzia tattica, in quell’arte del simulare e del dissimulare che lo fa assomigliare non tanto a Talleyrand ma piuttosto a un altro Giulio anch’egli romano, il cardinal Mazzarino.

Mentre il primo ha servito tutte le bandiere dalla chiesa dell’Ancien Régime come vescovo di Autun alla Grande Rivoluzione, da Napoleone alla Restaurazione, i due Giulio hanno servito un solo padrone: lo Stato assoluto (non tanto il Re Sole) il primo, il partito-stato il secondo. Per farlo hanno dovuto costruire la propria base, perché né uno stato né tanto meno un partito-stato si gestiscono solo con le idee o con una pattuglia di entusiasti.

Ma qual era la strategia andreottiana e quali le sue fondamenta economiche? La sua idea era semplice quanto complicata da realizzare: restare al vertice della Dc (era entrato dalla porta principale come segretario di Alcide De Gasperi e fiduciario pontificio) e mantenere il partito al centro di un sistema basato sull’equilibrio di molti poteri interni ed esterni. Il Vaticano era il più importante di quelli esterni, con una grande capacità di penetrazione all’interno. Poi c’era la massoneria, che aveva ripreso forza negli apparati dello stato post-fascista come li aveva in quello pre-fascista (ma anche durante il regime aveva mantenuto un forte ruolo se si pensa a figure come Alberto Beneduce, il plenipotenziario economico di Mussolini) e stretto la sua presa, anche intellettuale, con la Banca commerciale italiana e Mediobanca, cioè con Raffaele Mattioli e Enrico Cuccia, i grandi nemici di Andreotti sostenuti dai liberal-repubblicani, ai quali lisciavano il pelo anche i comunisti Palmiro Togliatti e Giorgio Amendola. Fuori e dentro c’era il mondo dei sindacati e delle cooperative rosse, mentre i socialisti erano entrati nei gangli del sistema pubblico ben prima del centro-sinistra. Ma la stessa Dc era permeata di potentati economici, si pensi solo al sistema creato da Amintore Fanfani con le partecipazioni statali.

Ebbene, in questo quadro complesso, Andreotti si costruisce una piattaforma romana con forti proiezioni nazionali ed estere. Nella capitale ci sono soprattutto i costruttori, tra i quali emergono i Caltagirone, senza trascurare quelli orientati a sinistra come i Marchini. E ci sono banche e banchieri legati al Vaticano (il Banco di Santo Spirito poi finito all’Iri, la Cassa di Risparmio) con un Banco di Roma sempre a cavallo tra le due sponde del Tevere. Anche la “dolce vita” è una fonte formidabile di potere, e da questo punto di vista Andreotti capisce in anticipo l’importanza della società dello spettacolo: il cinema del quale si fa subito guardiano e protettore; lo sport con la Roma (ma si prenderà cura anche della Lazio con Sergio Cragnotti). E ci sono i giornali, soprattutto Il Tempo di Renato Angiolillo e di Gianni Letta, in competizione con Il Messaggero della famiglia Perrone poi passato alla Montedison e ai socialisti (ogni direttore era iscritto o legato al Psi).

Poi arriverà La Repubblica, fondata dal principe Carlo Caracciolo e da Eugenio Scalfari, già bastonatore dell’andreottismo con l’Espresso. Si era fatto una fama rivelando lo scandalo Sifar, i dossier dei servizi segreti custoditi dal generale De Lorenzo e i rischi dei “poteri occulti”. Il nuovo giornale rompe il vecchio modo di fare il quotidiano, ma si trova presto in difficoltà. In più, il nuovo socio forte, Carlo De Benedetti, si scontra con Silvio Berlusconi per il controllo della Mondadori, che doveva fondersi con Espresso-Repubblica. Ad aiutare anche finanziariamente Caracciolo, Scalfari e De Benedetti è Giuseppe Ciarrapico, ex fascista, uomo d’affari andreottiano, ras di Fiuggi dove gestisce le terme. E la “guerra di Segrate” finisce con una spartizione che più andreottiana non si può.

Ma siamo già al 1990, e dobbiamo fare un passo indietro. A partire dagli anni ’60 lo sforzo maggiore dell’andreottismo fu contrapporsi allo strapotere di Cuccia nella finanza del nord, dei fanfaniani e della sinistra petrolifera (la corrente di Base finanziata dall’Eni) nel suo partito, e dall’entrismo socialista che arrivava ormai ai vertici dell’industria di stato con il pattuglione di tecnici guidato da Antonio Giolitti.

La guerra per banche si fa bollente quando Paolo VI, spaventato dalle velleità fiscali del centrosinistra che contagiavano anche la Dc, decise di spostare il tesoro liquido del Vaticano in America, Svizzera e in diversi paradisi fiscali. Per farlo si servì di Michele Sindona, il salvatore della lira – come lo chiamò Andreotti nel 1973 – che riciclava i dollari di Cosa Nostra. E Sindona, a sua volta, si servì dello Ior (un uso reciproco, in questo caso) e di Roberto Calvi, il ragioniere arrivato ai vertici del Banco Ambrosiano (che altro non era se non la banca della curia meneghina). Andreotti perde, vince Cuccia sostenuto da Carli governatore della Banca d’Italia e da Ugo La Malfa il capo del partito repubblicano e gran protettore della lobby Comit-Mediobanca.

A quel punto, il disegno di controbilanciare la finanza laica passa nelle mani di banchieri lombardi come Antonio Caloia, che andrà a dirigere lo Ior del dopo Marcinkus, e come Giovanni Bazoli che Beniamino Andreatta, già consigliere di Aldo Moro, ha messo alla testa del nuovo Banco Ambrosiano. Lo stesso Andreatta lancia il suo ex assistente Romano Prodi come ministro dell’Industria proprio sotto il governo Andreotti nel 1978, e poi lo mette, dal 1982, alla testa dell’Iri per ricostruire su basi più moderne il complesso finanziario-industriale che sosteneva la Dc. Non riuscirà, anzi: l’ironia della storia vuole che proprio Andreatta e Prodi dovranno smontare il capitalismo di stato negli anni ’90.

Ad Andreotti non resta che ripiegare su Roma. Il vasto progetto originario si trasforma in una aggregazione tra le banche capitoline, che rende corpo con la loro privatizzazione e trova in Cesare Geronzi lo stratega perfetto, uomo di sistema che sa cosa serve al sistema. Il “divo Giulio” è costretto, intanto, a fare molti passi indietro sotto l’attacco della magistratura e il processo per mafia. Ma vigila, consiglia, tesse.

Il culmine della sua influenza non è negli anni ’70 quando si trova a gestire la prima grande frana del sistema democristiano, la crisi petrolifera, il compromesso storico, il patto con il diavolo comunista nonostante i veti americani, il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, oltre al collasso di Sindona e Calvi. In quella fase, Andreotti gioca in difesa. Conserva il suo potere, lo mette a disposizione del rompighiaccio chiamato Bettino Craxi, lo trasforma poi in un asso nella manica quando anche il craxismo comincia a tramontare.

È negli anni del pentapartito, cioè tra il 1989 e il 1992, che Andreotti, da palazzo Chigi, esprime il massimo della potenza di fuoco. Occupa le partecipazioni statali orfane del fanfanismo e le spartisce con i socialisti. Benedice l’avventura di Raul Gardini (anti Cuccia). Mette all’Iri un suo uomo (Franco Nobili) e al ministero del Bilancio il fido Paolo Cirino Pomicino, che marca stretto Carli al Tesoro, il quale offre una copertura, un’alibi secondo alcuni. Il debito pubblico gonfiato da un decennio di monetizzazione delle riforme e di spese in disavanzo, era arrivato dal 70 al 93% del pil, in tre anni sale al 105 per balzare oltre il 120.

Nessuna di quelle operazioni ha vita lunga. Enimont, la fusione tra Eni e Montedison nella chimica, non vede mai la luce e genera la madre di tutte le tangenti. Tutte le partite giocate da Nobili, andreottiano di ferro, finiscono in un cul de sac (si pensi solo all’acciaio con il colosso Ilva). L’espansione della spesa pubblica provoca il gorgo in cui affonderà la lira.

Il lascito andreottiano che ancora sopravvive nel bene e nel male è il Trattato di Maastricht. Ci lavora Carli (in fondo era stato scelto anche per questo), ma sarà Andreotti a sciogliere il nodo politico convincendo Helmut Kohl e François Mitterrand a mettersi d’accordo. Lo hanno scritto nei loro ricordi tutti i testimoni, pochi lo hanno ricordato in mortem. Si è fatto troppo fumo nazional-popolare. Ci penseranno gli storici, ha detto Giorgio Napolitano per togliersi d’imbarazzo. Chissà come e chissà quando.

Abbondano le ricostruzioni del processo di Palermo e i legami andreottiani con la mafia. Rapporti politici senza alcun dubbio. Faceva parte della sua filosofia di gestione del potere. Fino a che punto si sono spinti? Ci penseranno gli storici a chiarire anche questo. Ma in tutta la parabola terrena di Andreotti c’è sempre un odore sulfureo. La sua concezione del potere e anche una notevole presunzione lo spinge a sporgersi fin oltre il baratro. I suoi uomini sono dei fedelissimi, tanto più fedeli quanto reietti che egli stesso ha sollevato dal fango, ha fatto uscire dagli angoli oscuri. Per lo più, e non a caso, ex fascisti come il suo plenipotenziario romano Vittorio Sbardella o lo stesso Ciarrapico. O voltagabbana, come Salvo Lima in Sicilia che tradisce Fanfani.

Sembra che ogni patto col diavolo rappresenti una carezza alla propria hybris. Ironico, sarcastico, acuto, certo, ma basta guardare certe foto di Andreotti negli anni del massimo splendore, basta osservare quegli occhi stretti, quella bocca tagliata quasi senza labbra, quella postura altezzosa della testa incassata tra le spalle segnate dal rachitismo infantile, basta averlo visto all’opera, aver parlato con lui di politica e di affari, per capire chi era Andreotti e perché ha contato così tanto nella vita dell’Italia.

Oggi si dice che l’andreottismo sopravvive perché lo si riduce a cinismo, opportunismo, gusto del potere per il potere. Categoria generiche che si trovano già in ogni narrazione della commedia umana da quando l’uomo ha cominciato a raccontarsi. In realtà, non può più esistere perché molto prima di Andreotti si è spento quel mondo che lui, con il suo metodo, aveva cercato di salvare a tutti i costi.

La data del 1992 è davvero lo spartiacque dell’Italia: cade la lira, s’abbassano tutte le barriere protezionistiche in Europa, lasciando scoperto il sistema protetto della grande industria pubblica e privata, viene approvato il trattato di Maastricht, Mani Pulite travolge i partiti, Andreotti lascia per sempre palazzo Chigi (un anno dopo verrà processato per associazione mafiosa). Quell’Italia non c’è più. Non ci sono più i poteri che l’avevano dominata e in parte ricostruita. Nuovi poteri all’orizzonte non si vedono ancora. Tanto meno una nuova ricostruzione. Silvio Berlusconi ha cercato di riempire il vuoto con il proprio ruolo dominante, ma ha lasciato un vuoto ancor più grande. La sinistra è arrivata al governo, lo ha tenuto per sette anni a fasi alterne, si è frantumata e indebolita.

Che dire di Enrico Letta? Non viene indicato proprio lui, nipote di Gianni, cattolico fervente, già giovane democristiano, come l’erede non certo dell’andreottismo, ma del modo democristiano di far politica? Il suo governo non è pieno di ex Dc sia pur di nuova leva, che hanno spiazzato gli ex comunisti? Tutto vero e tutto falso. Le culture politiche italiane si sono rimescolate e un importante frullatore è stato l’Arel, il pensatoio creato da Andreatta che ha forgiato anche Letta, all’insegna di una nuova modernizzazione.

Incastonata nell’Unione monetaria europea, pressata dalla globalizzazione, priva delle leve nazionali di potere, la più importante delle quali resta la spesa pubblica, all’Italia mancano i presupposti stessi per dar vita a un qualsiasi post-andreottismo. Roma resiste ancora, ma è sempre più sola. Con un papa gesuita venuto dall’altra parte del mondo. E un’invasione di ultracorpi in Parlamento. 

Twitter: @scingolo

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