Sono stato ad un concerto e non vedevo l’ora che il tipo che stava introducendo all’ascolto se ne andasse. Perchè non torniamo ad ascoltare la musica per quello che è non per quello che vorrebbe essere? L’ascolto della musica fa parte dei piaceri della vita. Tuttavia godere in musica significa riuscire a riconoscerne gli ingredienti. Siccome il problema della percezione degli ingredienti musicali, si è cominciato a porre seriamente con Beethoven, sarebbe bello per esempio trovare qualcuno che ci aiutasse ad ascoltare la sua musica – tutta la sua musica e non solo quella sinfonica – senza strumenti troppo complicati.
Questo qualcuno potrebbe essere Samuel Beckett. Sì, proprio lui. Non tanto quello del teatro ma il Beckett della prosa. Beckett è uno di quegli scrittori del Novecento che, come Joyce o la Bachmann, ha materialmente ficcato dentro alla prosa brandelli di note. Beckett era convinto che la letteratura fosse un fatto di suoni, e soprattutto non di significati. Inoltre credeva nella inevitabile distorsione dell’ascolto. Benchè amasse Schubert e Mozart, i personaggi di «More pricks than kicks», «Murphy», «Watt» e «Molloy» appaiono tanto incoerenti, irritanti, iperbolici, imprevedibili, mancanti e deludenti quanto il Beethoven degli ultimi quartetti o delle sonate per pianoforte. Beckett ha poi giocato così tanto con le variazioni e le permutazioni degli ingredienti del linguaggio che non può non ricordare un tratto caratteristico della composizione beethoveniana. Ha perfino messo nella sua prosa una specie di dybbuk del racconto, il dantesco Belacqua, che chiama un ossimoro vivente cioè una “pausa beethoveniana”, evocando in tal modo un ingrediente fondamentale della sua musica: l’energia che pronana dal silenzio, dall’attesa di ciò che sta per accadere.
Non sono forse questi dei buoni motivi per far tacere le introduzioni logorroiche e tornare a leggere Beckett per ascoltare meglio anche Beethoven?