L’ultima è che Ben Bernanke sia stato licenziato da Barack Obama. Questa sarebbe la verità nascosta dietro le fredde e imbarazzate parole del presidente degli Stati Uniti sul ricambio al vertice del Federal Reserve System: «Bernanke è rimasto già più a lungo di quanto egli stesso voleva o si supponeva che restasse». Sette anni sono lunghi, sette anni di vacche magre. La tesi l’ha sostenuta pubblicamente un ex della Fed, Laurence Meyer. Se ha ragione o no, si saprà forse in seguito; certo è che anche negli Stati Uniti si consuma una rottura che segnala una tendenza. Per gli economisti, gli accademici, i guru che hanno trascorso una vita nelle aule universitarie e sono chiamati a mettere in pratica le loro teorie (proprio come Helicopter Ben, il massimo studioso della crisi del 1929) corrono tempi duri. Le svolte economiche ormai vengono dalla politica. Dal Giappone alla Cina, dalla Germania agli Stati Uniti, politique d’abord.
Vedremo chi vincerà nella corsa alla successione che vede ben sette candidati sul nastro di partenza, tutti nomi eccellenti, alcuni dei veri luminari come Alan Blinder, collega di Bernanke a Princeton, o Stanley Fischer, maestro di Bernanke e di Mario Draghi (anche se viene considerato un outsider). Il profilo degli altri, invece, tende nettamente verso la politica e l’amministrazione. In cima alla lista c’è Christina Romer, già consigliera del principe. Poi Lawrence Summers (eterno pretendente) che è stato segretario al Tesoro nel secondo mandato di Bill Clinton; il suo collega Timothy Geithner, il grande occhio su Wall Street che ha guidato i salvataggi bancari; e tre interni: Janet Yellen, molto vicina all’attuale presidente, Donald Kohn e Roger Ferguson entrambi emersi durante la gestione di Alan Greenspan. Ferguson è il primo nero al vertice della banca centrale. La Yellen e la Romer sarebbero le prime donne e quest’ultima oggi sembra in pole position.
Obama vuole un suo fido perché possa fare la politica economica più congeniale alle proprie priorità politiche? Messa così è una interpretazione un po’ rozza. Il presidente degli Usa non è Shinzo Abe e la Fed ha uno statuto e una tradizione di maggiore autonomia rispetto alla Banca del Giappone. Eppure l’Abenomics ha fatto tendenza, inutile negarlo. Persino in Europa.
Lo scontro interno alla Bce che sulla carta è la più indipendente della banche centrali, ha un contenuto politico, non solo dottrinario. È la Germania che si oppone all’interventismo pragmatico di Draghi. Jens Weidmann è stato paracadutato al vertice della Bundesbank direttamente dalla Cancelliera Merkel della quale era ascoltato consigliere. Il rappresentante tedesco nel direttorio, Jörg Asmussen, a sua volta era il consigliere di Wolfgang Schäuble. Finora è stato più leale alla Bce rispetto al connazionale, ma adesso anche il ministro delle finanze ha alzato il tiro nei confronti di Draghi.
Mentre la politica riprende il timone, la “scienza” economica è in ritirata. Le virgolette sono dovute, anche se nessuna scienza, nemmeno quelle naturali, è esatta, come si sa da oltre un secolo. Gli economisti ormai da anni non fanno che dedicarsi all’autocritica. Prima sull’illusione che le innovazioni tecnologiche e finanziarie, insieme alla nuova immensa domanda dai Paesi in via di sviluppo, avrebbero allontanato per sempre crisi distruttive. Si teorizzava la fine del ciclo economico, tutt’al più qualche piccola oscillazione in alto e in basso. Poi è arrivato il 2008. «Come mai non l’avevate previsto?», chiese con il suo finto candore la regina Elisabetta ai soloni della London School of Economics e quelli, con il capo cosparso di cenere impiegarono alcuni mesi di discussioni intense prima di mandare una lettera di scuse. Nemmeno fossero i chierici della Scolastica davanti al Papa.
Adesso l’autocritica riguarda l’austerità: Olivier Blanchard e i suoi aiutanti al Fondo monetario internazionale sostengono che l’acceleratore fiscale non è più 0,5, ma 1,5. I mutamenti strutturali indotti dalla crisi lo hanno portato ben oltre l’un per cento, quindi l’impatto della stretta sulla congiuntura è triplo. La colpa è anche del fatto che le banche centrali hanno inondato il mercato di liquidità e ridotto i tassi a valori reali negativi. Alla faccia dei manuali. Non solo.
Blanchard sostiene da tempo che la lotta all’inflazione è vittima dei propri successi: i prezzi sono troppo bassi, siamo al limite della deflazione nei Paesi occidentali. Anche questo è conseguenza dei mutamenti del reale: tecnologie, concorrenza salariale al ribasso dai paesi in via di sviluppo, nuovi settori produttivi, nuove consapevolezze sociali e politiche (come nel caso della lotta al caro farmaci), scoperte energetiche (come il gas e il petrolio dalle scisti rocciose).
Insomma, ci sono più cose in cielo e in terra Orazio di quante ne sogni la tua filosofia. Lo diceva già Shakespeare (che forse era Bacone o lo citava). E vale ancora, per fortuna. Guai alla dittatura dei numeri che, come lamenta il Censis, sono troppi e, quindi, servono solo per comunicare, non per conoscere. E guai all’inflazione mediatica (sempre il Censis) che impedisce di capire che cosa è importante e cosa no, enfatizzando le peggiori tendenze di una “società impersonale”, verso la quale si tende ad avere lo stesso atteggiamento che si ha verso il paesaggio: contemplativo e sostanzialmente rassegnato.
La conferma viene dalla reazione dei mercati proprio alle ultime dichiarazioni di Bernanke. L’espansione monetaria rallenterà nel 2014, probabilmente già alla fine di quest’anno, se la disoccupazione americana continuerà a scendere (l’obiettivo del 6,5% verrebbe raggiunto prima del previsto) e l’inflazione si manterrà come ora sotto il 2%. Per ora nulla cambia, ma gli operatori che leggono i giornali e non i dati, hanno cominciato a vendere titoli temendo un rialzo dei tassi. Che avverrà tra molti mesi, tra un anno. Un’eternità. Forse.
Su delle mere ipotesi che estrapolano l’oggi, quindi sono sempre soggette a errore, si muovono miliardi di miliardi di dollari, si condannano uomini o Paesi a una nuova povertà. È il mercato bellezza? No, è una falsa idea di mercato che non tiene conto della storia, della società, della politica, della psicologia. Non quello di Adam Smith, semmai quello di una disciplina sempre più ancella e anticamera di fortune create dal potere. E poi non ci si lamenti se la politica torna al primo posto.
Twitter: @scingolo