Lo scoppio della rivolta di Taksim a Istanbul – così come di altre in diverse città – segnala che l’Occidente ha perso la Turchia. Quella parte di «società secolarizzata», rappresentata dalla gente scesa in piazza, era ciò su cui gli americani speravano per riuscire a costruire un nuovo ordine in Medio Oriente, possibilmente incentrato su quei valori di «società aperta» che contraddistinguono l’ideologia diplomatica nazionale.
La componente secolare della società turca è sempre stata in rapporto conflittuale con il premier Recep Tayyip Erdogan e il suo partito, l’AKP. Se prima si parlava di esso come un partito «islamico moderato», negli ultimi anni ha mostrato una natura ben più perniciosa di «islamista riformista». L’agenda d’introduzione progressiva di riforme in senso religioso-culturale ha provocato una reazione forte al primo pretesto utile: è chiaro che il taglio degli alberi di Gezi Park, per quanto scempio culturale in sé, non è un atto tale da giustificare la guerriglia di Istanbul – ma tanto valeva per far unire la gente contro «Il Dittatore».
La gente di Taksim è fuori dalla politica turca – che sia per lo stato deficitario dei partiti all’opposizione, o per l’abilità di Erdogan di spaccare l’opposizione, quale sorta di Berlusconi islamico. Questa stessa gente era la speranza degli Stati Uniti: la loro voce liberal (relativamente parlando) avrebbe dovuto tenere a bada l’onda dell’AKP, e essere incorporata nell’agenda di governo. Non è successo nulla di tutto questo.
La borghesia di Istanbul teme che la Turchia sia avviata a diventare un nuovo Libano, con «classi separate» che coabitano in mini-enclave anche a livello urbano. Ci si spinge oltre: s’immagina una Turchia permeata sul modello degli Emirati Arabi, con centri ben definiti dedicati ai «piaceri occidentali» – alberghi e ristoranti – frequentati solo da non-islamici e stranieri.
Per gli Stati Uniti, gli sviluppi turchi spingono a credere che la biglia della roulette mediorientale si sia fermata nel numero più sfortunato: Istanbul è il tracollo di tutto l’approccio di Obama nel quadrante. L’amministrazione democratica aveva incominciato il suo mandato con la mossa che tutti ritenevano più urgente: riavvicinarsi con l’Iran e la Russia, nazioni che perseguono una cinica idea di destabilizzazione del Medio Oriente.
Fino al 2011, la situazione sembrava positiva per gli Usa. I rapporti stavano migliorando con Muammar Gheddafi, e dal 2006 la Libia era stata cancellata dalla lista degli «stati che sponsorizzano il terrorismo». L’Egitto di Hosni Mubarak continuava a crescere e si stava candidando come partner per il contatto mediterraneo con l’Occidente. La Siria era in crescita e stava attirando capitale internazionale, con gli Assad che continuavano la propria attività di dittatura interetnica – pur sempre preferibile alla guerra civile – e avevano ridotto l’influenza sul Libano, richiamando le truppe vicino al confine siriano nel 2009. Perfino l’Arabia Saudita si stava dimostrando più morbida sulla politica petrolifera. L’unica preoccupazione americana era il ritiro da Afghanistan e Iraq.
Lo scoppio della rivolta iraniana, quella dell’»Onda Verde» nel 2009, sembrava segnalare che la strategia stesse funzionando. Tra il 2011 e il 2013, però, tutto il sistema è collassato – un collasso definito «Primavera Araba» da alcuni. La prima reazione è stata quella di cercare un «nuovo modello politico» per il Medio Oriente, e la Turchia sembrava essere la soluzione più a portata di mano. La Turchia politica era considerata islamista, ma «moderata». La Turchia, confine tra Est e Ovest del mondo, avrebbe potuto far da tramite tra le diverse istanze. La Turchia avrebbe potuto controllare la rivolta siriana. La Turchia avrebbe potuto contenere l’indipendentismo curdo in Iraq e Siria. La Turchia rappresentava un’alternativa presentabile ai Pasdaran iraniani. La Turchia avrebbe potuto far comprendere ai Fratelli Mussulmani in Egitto che il modello democratico poteva essere islamista, ma doveva rispettare le minoranze, evitando eccessivo zelo religioso.
I fatti hanno dimostrato che una visione più realista – e forse più pessimista – dell’Islam politico era più vicina alla realtà. Un acuto osservatore turco, Hussein Bagci, politologo all’Università di Ankara, per un paio d’anni ha fatto saltare tutti sulla sedia quando alle conferenze dichiarava che «i presidenti arabi erano gli innovatori del Medio Oriente». Nella vecchia disputa sull’«Islam moderato», sembra aver prevalso l’idea secondo cui «there is no such thing as moderate Islam» («Non esiste una cosa che si chiami Islam moderato»), sentimento espresso tra gli altri nel 2011 da Jeannette Bougrab, ex-ministro francese per la Gioventù, di origini algerine.
Il problema di un nuovo ordine incentrato sulla Turchia è anche l’atteggiamento estero del paese. Gli eredi dell’Impero Ottomano, o almeno quelli che si considerano suoi eredi, covano ancora l’idea di «guidare il mondo arabo», cioè quella stessa porzione di mondo che hanno sottomesso dalla caduta di Costantinopoli alla Prima Guerra Mondiale. È chiaro che gli arabi hanno sempre guardato con diffidenza il «neo-ottomanesimo», disegno in gran parte fallito già da tempo.
Uno dei nodi riguarda anche Israele: la Turchia non ha nessun interesse, se non quello dello zelo religioso, a opporsi a Gerusalemme. Israele è l’unico mercato mediorientale in crescita per le esportazioni turche, e l’unica democrazia reale del quadrante. Gli Stati Uniti sapevano che il rapporto con Israele era importante, e Obama in persona ha provato a mediare una riappacificazione dopo i fatti della «Mavi Marmara». Erdogan ha portato a casa le scuse del premier Bibi Netanyahu, salvo poi impiegarle per propaganda politica.
Rimane da chiedersi: è tutta colpa di Obama? Perché in fondo, considerata la pesante eredità militare e politica dei Bush, la carta turca era l’ultima che poteva essere giocata. Da almeno tre anni Obama sta agendo da «cunctator»: attende gli eventi sperando che prendano una piega positiva. Ciò non è successo, e tutte le agende rimangono ancora aperte: nucleare iraniano, guerra civile in Siria, estremizzazione politica in Libia ed Egitto. Il secondo mandato di Obama, come quello dei grandi presidenti, doveva essere dedicato alla risoluzione del conflitto israelo-palestinese – ma nulla è mai sembrato più lontano dal Medio Oriente.