A molti è apparsa un po’ come la stanca riedizione dello stesso Obama di cinque anni fa, quando ha parlato per la prima volta a Berlino. Allora l’88% dei tedeschi sosteneva la sua candidatura – anche se non è ben chiaro a cosa servisse un “sostegno tedesco” per un candidato alle presidenziali americane. Obama era arrivato nella capitale tedesca per fare una cover di John Fitzgerald Kennedy, quello che con sprezzo degli errori grammaticali dichiarò “ich bin ein Berliner” (ovvero: io sono un krapfen). I berlinesi si sono prestati di buon grado al videoclip.
Gli andò bene. Ma qual è il senso della nuova visita? Nel 2008 c’erano ben 200.000 berlinesi ad attenderlo, attratti dal fulgore mediatico della stella nascente. Ieri è tornato in città un uomo incanutito, col sorriso che si è fatto a tratti incerto, quasi non più in grado di nascondere i contorni della maschera. Sono stati selezionati 4.500 spettatori per un discorso pubblico davanti alla Porta di Brandeburgo, nel quale sono state ripercorse le tappe canoniche del “do-good” politico del nuovo secolo: energia verde, riduzione delle armi atomiche, siamo tutti amici e perciò leviamoci la giacca che fa caldo [sic], mentre la consorte Michelle con figlie si aggirava per le mete turistiche cittadine, surrealisticamente svuotate dei turisti di giugno.
Che non si parli, per carità, di robaccia come i droni o il programma di spionaggio della Cia – ipercritico il quotidiano liberale Die Welt, che al mattino titola “Obama, spiavi anche i tedeschi?”, e al pomeriggio celebra il fatto che “Il caldo di Berlino colpisce Michelle Obama”. Eppure, se il personaggio è invecchiato e la maschera regge meno, è il contenuto dell’incontro ad avere finalmente un valore. Se il discorso del 2008 era una cover, il 2013 è un pezzo originale. La visita estemporanea di Obama a Berlino è il riconoscimento della Germania come interlocutore privilegiato per almeno quattro agende scottanti che riguardano i rapporti internazionali.
La prima agenda è quella dei rapporti con la Cina. Obama si è beccato una selvaggia reprimenda da parte del presidente cinese Xi Jinping dopo i fatti del sistema di ascolto – episodio ammesso dallo stesso Obama. A quanto pare, Barack recentemente aveva dato a Xi una lezioncina sul fatto che la «Cina deve comportarsi da grande potenza», e le notizie sull’orecchio digitale di Washington sono apparse come una prova evidente per il vizio di predicare bene e razzolare malissimo. Visti i rapporti civili tra Germania e Cina, Berlino può agire da proxy.
La seconda agenda è collegata alla prima. In un silenzio politico fuori dal mondo, quasi da film di Antonioni, si sta negoziando il più grande trattato sul libero scambio della storia, che coinvolgerà il Nord America e l’Europa, con una nuova area di scambio comune dalla Lettonia alla California. Per chi non ne sapeva nulla fino a poco fa, si chiama “Transatlantic Trade and Investment Partnership” (“TTIP”). Se n’è parlato un pochino solo quando i francesi hanno chiesto di non includere i prodotti culturali nel trattato. Se ne parlerà tantissimo quando verrà fuori che, al confronto, le contestazioni contro il Nafta e le quote latte sembreranno giostre di Disneyland al confronto. Nella Germania, gli Usa cercano appoggio per approvare il trattato: sanno che per Berlino si aprirebbe un mercato esportativo enorme. Sanno anche che un mercato comune si potrà proporre diversamente nei confronti della Cina, e serviranno strategie condivise. Ci sarà poi una tempesta di regole da imporre e negoziare, e servirà andar d’accordo con l’esemplare alfa. La Germania, maggior esportatore europeo verso il paese asiatico, è il punto di riferimento.
La terza agenda riguarda la crisi dell’euro. Mentre la Germania esporta, il resto d’Europa soffre.Obama non è andato a impartire ordini – è da escludere che Washington comprenda bene cosa stia succedendo in Europa – ma a sincerarsi del fatto che la crisi sia “gestita”. È in parte anche un messaggio ai mercati: si vuole assicurare che gli Stati Uniti non vogliono lasciare la Germania da sola. Alcuni giorni fa Obama ha dichiarato a mezza bocca che, forse, l’austerity dura e pura non è un granché come soluzione. C’è da essere curiosi: nei prossimi giorni sapremo se Obama cambierà idea, riportando la classica risposta di mamma Merkel («L’Austerity funziona e l’Europa è sulla buona strada»); o se la Merkel diventerà obamiana. È quasi inutile aggiungere che la seconda ipotesi spingerebbe a pensare che il caldo di Berlino abbia preteso una nuova vittima, stavolta nella persona del cancelliere.
L’ultima agenda riguarda la Russia. Mosca e Berlino coltivano da sempre un rapporto privilegiato tra industria ed energia. Agli Stati Uniti, la Russia sta dando numerosi grattacapi in Medio Oriente: il sostegno del Cremlino al regime siriano ha provocato un prolungamento del conflitto, così che ora si sono infiltrati tra i ribelli numerosi esponenti di sigle massimaliste di stampo islamico, appassionate di pratiche religiose estreme e barbe incolte. La Russia non ne vuole sapere di ridurre la propria pressione sul quadrante arabo, e nel corso del G8 in Irlanda Obama e Putin hanno litigato. Si sta cercando una soluzione esterna: come spesso negli ultimi settant’anni, le crisi mediorientali sono state risolte in Europa. La Germania può negoziare con la Russia una pace particolare con gli Stati Uniti, concedendo altro in termini economici o politici.