I critici di Susan Rice, nominata il 5 giugno da Barack Obama consigliere per la sicurezza nazionale, amano evocare due uscite infelici.
La prima è quella che Rice ha ripetuto nei cinque salotti televisivi della domenica a proposito dell’attacco al consolato americano di Bengasi dell’11 settembre 2012: «È iniziato spontaneamente come reazione a quello che era successo qualche ora prima al Cairo, dove c’è stata una violenta protesta fuori dalla nostra ambasciata per via di un filmato odioso». La versione della protesta spontanea è stata smontata pezzo per pezzo da indagini, testimonianze, email e ricognizioni che descrivono l’accaduto come un attacco terroristico orchestrato da Ansar al Sharia, le brigate qaidiste della Libia.
Nonostante Rice fosse soltanto il portavoce scelto di un’interpretazione dei fatti preparata in altre stanze, gli avversari l’hanno messa in croce come fosse stata lei in persona a dettare la linea. Che il fatto sia avvenuto nel mezzo della campagna per la rielezione di Obama ha aggravato la sua posizione: non solo inquina la verità di fronte al popolo americano, ma lo fa per spregevoli motivazioni elettorali. Le accuse le sono costate la nomina alla guida del dipartimento di stato, per il quale il presidente ha scelto il meno controverso John Kerry.
Il secondo episodio risale al 1994, quando Rice era un astro nascente nel consiglio per la sicurezza nazionale e l’Amministrazione Clinton s’interrogava sul da farsi in Ruanda. «Se usiamo la parola “genocidio” e poi non facciamo nulla che effetto avrà questo sulle elezioni di novembre?», ha detto in una conversazione riservata con i rappresentanti delle agenzie di sicurezza. Ancora una volta l’accusa che viene mossa a Rice è quella di anteporre gli interessi di parte al bene pubblico, piegare una tragedia umanitaria al calcolo politico.
L’ironia è che le sue parole sono state riportate da Samantha Power, ex giornalista e consigliere politico che ieri nel Giardino delle Rose sorrideva accanto a lei e al presidente, mentre accettava di succederle all’ambasciata presso l’Onu. Power e Rice, animali a sangue caldo cresciuti nel vivaio clintoniano, hanno condotto insieme la battaglia politica per convincere Obama a intervenire in Libia per spodestare Gheddafi. Lo hanno fatto dalle posizioni classiche dell’interventismo liberal, la dottrina che in nome dei diritti umani impone azioni decise, motivate moralmente ed esercitate con la forza, se necessario. Ora che il primo nome nella lista dei tiranni è quello di Bashar al Assad la doppia nomina di Obama potrebbe indicare una svolta nell’attendismo americano sulla Siria. Se non avverrà, le amazzoni dei diritti umani appena promosse dovranno certamente rispondere a sostenitori e critici del cedimento di principio. Questo è il primo elemento da considerare nel nuovo assetto obamiano.
Qualcuno dice che Rice ha ricevuto un premio di consolazione. Doveva dirigere la diplomazia con l’autorevolezza di una Hillary più aggressiva e sfacciata, andarsene in giro per il mondo a fare discorsi storici, saluti dalla scaletta dell’aereo e cene glamour, invece si ritrova nelle stanze buie del consiglio della sicurezza nazionale. Sembra un passo indietro ma non lo è. E non a casa cinque anni fa, quando era una consigliera di politica estera di estrazione clintoniana ma già fedele al candidato Obama, sognava quel posto, non i pavimenti lucidi di Foggy Bottom. Averlo ottenuto oggi, al secondo mandato, è persino meglio.
Obama ci ha messo quattro anni a trasformare il consiglio per la sicurezza nazionale in un ingranaggio efficiente, un collo di bottiglia dal quale passano tutte le decisioni di politica estera. Ha affidato a Tom Donilon il compito di tappare i buchi e stroncare i critici. Lui, che ha la fama di essere uno degli uomini più silenziosi e risoluti di Washington, lo ha fatto senza fiatare e senza fare prigionieri.
Ha rivolto lo sguardo dell’America verso l’Asia, ha tenuto a bada gli uomini del Pentagono e quelli delle agenzie, ha impedito che i funzionari dell’Amministrazione scavalcassero il suo potere rivolgendosi direttamente al presidente, come spesso facevano Dick Cheney e Donald Rumsfeld quando al consiglio c’era Condolezza Rice. Così quella che arriva nelle mani di Rice è una corazzata collaudata alla quale lei può aggiungere il suo fare “outspoken” e la sua testardaggine proverbiale. Rice non ha un carattere fatto per attrarre simpatie e farsi nuovi amici, è una provocatrice nata, dall’inizio della carriera in politica estera è quasi sempre la più giovane nella stanza, spesso anche la più “smart”, cosa che non sempre le ha giovato nella gestione dei rapporti interni.
Acume e carattere le sono valse però la stima incondizionata di Obama, che l’ha accolta in quel cerchio magico dove i consiglieri si confondono con gli amici. David Ignatius, editorialista del Washington Post e grande esegeta del potere di Washington, dice che «quello che Rice dice ad alta voce è molto spesso quello che Obama pensa in privato». Qualità rischiosa per lo stretto consigliere di un presidente. Per questo le ha affidato un compito dove le sue qualità sono valorizzate e allo stesso tempo arginate, un alveo scavato in anni di disciplinata pratica burocratica per incanalare la forza del fiume.
L’estro educato dalla coolness è, del resto, la sintesi preferita di Obama. E anche Power, famosa per battaglie di principio che le sono costate qualche gaffe – nel 2002 ha detto che non sarebbe poi così sbagliato invadere militarmente Israele – è allo stesso modo un personaggio che può rivitalizzare la squadra di Obama che ha le mani sui fianchi, ma dev’essere opportunamente collocata e gestita. Obama è la forza che fa da contrappeso, è il liquido di raffreddamento di un motore sempre sul punto di fondere. La ricerca meticolosa di un equilibrio fra audacia ed efficienza è il secondo pilastro di questa nuova squadra che affronta il primo, decisivo test in Siria.
Twitter: @mattiaferraresi