Più grande dell’Iri: può contare su un attivo di 300 miliardi di euro, mentre l’Istituto per la ricostruzione industriale al culmine del suo potere aveva un bilancio in lire equivalente a 138 miliardi di euro. Più forte di molti fondi sovrani: sarebbe al quarto posto dopo Abu Dhabi, Norvegia e Arabia Saudita. Nata per finanziare i comuni, la Cassa depositi e prestiti in questi anni ha assunto via via una funzione strategica. Infrastrutture, le reti (gas, elettricità, in futuro telefonia), la finanza (le Generali), il petrolio (detiene la quota pubblica dell’Eni), l’industria manifatturiera, la grande distribuzione, il turismo, le esportazioni. Il suo raggio d’azione tocca ormai tutti i gangli dell’economia. Lo scorso anno ha mobilitato risorse per 22 miliardi, pari all’1,5% del prodotto lordo, realizzando un utile di 2,8 miliardi. Chi la controlla ha in mano una leva di grande potenza. E proprio in questi mesi tutti i principali campioni stanno affilando le loro armi. Ma la giostra attorno alla Cdp ha implicazioni ancora più vaste perché rimanda al grande ritorno del Leviatano.
La manona ben visibile dello stato sta ingaggiando ovunque un conflitto con la mano invisibile del mercato, non per espropriarlo o sussumerlo dentro la pianificazione pubblica, ma per competere da pari a pari. Il nuovo Leviatano è un soggetto forte nell’arena del mercato e mobilita risorse enormi che in ultima istanza provengono dalle tasche dei contribuenti. Una concorrenza sleale rispetto agli attori privati? Se fossimo in una situazione perfettamente equilibrata e simmetrica, come quella descritta dai neoclassici alla Leon Walras, sarebbe vero. Ma i protagonisti nell’anfiteatro dell’economia globale, sono immense multinazionali il cui bilancio è più grande di quello di uno stato, che non mobilitano le risorse di proprietari piccoli o grandi (nessuno li conosce più), bensì un anonimo risparmio intermediato da gigantesche banche, fondi di investimento, istituzioni finanziarie le quali fanno appello al pubblico (anche loro) non attraverso le tasse, ma potremmo dire attraverso i tassi.
Il gioco dello scambio come lo chiamava Fernand Braudel, è mutato ormai da tempo. La competizione globale tra stati e popoli passa attraverso complesse operazioni economiche dove politica industriale e politica estera si fondono assieme. I governi dei paesi industrializzati come di quelli emergenti, si sono dotati di strumenti tali da operare in questa nuova dimensione. In particolare, hanno creato veicoli finanziari capaci di mettere insieme delle vere e proprie forze d’urto industriali, al fine di conquistare primati sui mercati internazionali, fare blocco rafforzando il sistema paese, e infine non farsi colonizzare da multinazionali straniere, trasformate in moderne portaerei dell’export altrui.
Il Leviatano è tornato per superare la crisi del 2008 e non ha intenzione di ritirarsi. La sua presenza si manifesta nel modo più immediato attraverso il balzo dei disavanzi e dei debiti pubblici, il più drammatico in tempo di pace, nettamente superiore rispetto agli anni ’30 quando l’intervento pubblico muoveva i primi vagiti nel mondo occidentale. Si è chiuso così il ciclo neoliberista inaugurato in risposta ad un’altra grande crisi, quella degli anni ’70 che non fu solo petrolifera, ma sociale, economica, di modello di sviluppo come si diceva allora. Pur attraverso una serie di crisi locali e parziali anche acute (Messico, Sud est asiatico, Russia, Argentina), la globalizzazione liberista ha garantito la prosperità per un quarto di secolo. Il neo interventismo finora è riuscito a far ripartire solo gli Stati Uniti e a ritmi bassi rispetto agli standard internazionali.
La seconda incarnazione del nuovo Leviatano è nelle banche centrali: il loro eccezionale attivismo (se non avessero pompato moneta a go go, il mondo sarebbe in depressione come negli ani ’30), lo si legge nei bilanci, triplicati rispetto al 2007.
Ma c’è anche una terza forma spesso trascurata, che invece è di grande importanza e ci riporta al punto da cui siamo partiti: le imprese pubbliche. Nella classifica delle più grandi multinazionali è facile constatare che molte di loro sono possedute direttamente o indirettamente dagli stati. Ciò è avvenuto soprattutto per l’irrompere ai piani alti dei colossi cinesi o dei paesi in via di sviluppo. Ma non solo. E qui il ruolo del fondo norvegese nato per mettere a frutto nel migliore dei modi la manna scaturita dal Mare del Nord, ha davvero molto da insegnare. Non a caso è proprio a questo modello che cominciano a ispirarsi diversi paesi europei.
Partecipazioni della Cassa Depositi e Prestiti
Il governo di Oslo stanzia ogni anno il proprio surplus di bilancio nel fondo sovrano “Norwegian government pension fund global” ( il secondo in assoluto per grandezza, con 542 miliardi di dollari in portafoglio). Quest’ultimo è oggetto a una rigida regolamentazione; un tetto massimo di prelievo del 4% annuo oltre il quale non è possibile attingere, in modo da conservarlo per le future generazioni. Esso rappresenta forse il meno caratterizzato in senso geopolitico, ha investito massicciamente nell’immobiliare europeo e in grandi gruppi come Nestlé, in bond sudcoreani e in Btp, o in 400 imprese italiane (tra le quali Fiat, Unicredit, Telecom, Intesa). La Cina, invece, utilizza i suoi fondi strategici secondo un calcolato piano di influenza. La Repubblica Popolare ha iniziato nel 2007 con ben quattro fondi strategici (National social security fund; Hong Kong investment portfolio; SAFE; China investment corporation) i quali tutti insieme superano i mille miliardi di dollari come potenza di fuoco. Nel mezzo vi sono i veicoli finanziari dei paesi del Golfo Persico, la cui natura è soprattutto conservativa, anche se non mancano di obiettivi politici (in primis ridurre la dipendenza dall’Occidente). Tra questi si contano: Abu Dhabi (627 miliardi di dollari), Arabia Saudita (415) Kuwait (228). I fondi di investimento europei perseguono una pluralità di fini: mantengono il controllo in settori strategici come trasporti e infrastrutture, telecomunicazioni, energia e difesa; svolgono la funzione di apri-pista dell’espansione commerciale del proprio paese, per aumentare le quote di mercato dei propri campioni nazionali; acquisiscono partecipazioni all’estero; marcano le proprie sfere d’influenza su paesi in difficoltà.
La Cdp era nata nell’Italia post unitaria per finanziare i bilanci dei comuni, sul modello della Caisse des depots et consignations francese. Alimentate entrambe dai risparmi delle classi medio-piccole (il libretto A la Caisse, il risparmio postale la Cassa) possono attingere a una riserva finanziaria vasta e certa (i buoni fruttiferi e i libretti postali sono un decimo dell’intero risparmio italiano) anche se non a proprio piacimento. Del resto, nemmeno le banche potrebbero/dovrebbero usare i depositi dei clienti come vogliono: la crisi è scoppiata proprio perché lo hanno fatto. Il modello franco-italiano trova nella Germania del secondo Dopoguerra una variante un po’ diversa: il KfW, Kreditanstalt fuer Wiederaufbau (Istituto di credito per la ricostruzione) voluto dagli Usa per amministrare le risorse del piano Marshall. Detenuto per l’80% dal Tesoro federale e il resto dai Laender, con gli anni si è trasformato in uno strumento a disposizione del pubblico per finanziarie investimenti strategici senza contabilizzarli nel bilancio dello stato.
Con un attivo di 500 miliardi di euro, supera anche la Cdp italiana. Il KfW è stato utilizzato negli anni ’90 quando anche in Germania (a causa dei costi della riunificazione) era diventato difficile centrare i parametri di Maastricht, per “stornare” poste che avrebbero dovuto figurare nel bilancio federale. Nel 2007 ha salvato una banca, la Ikb che è stata la prima in assoluto a fallire (anche se il senso comune vuole che la crisi sia cominciata negli Usa e poi nel Regno Unito, il primo crac è tedesco). Il suo raggio d’azione (dalle infrastrutture all’ambiente alle piccole imprese, fino alla quota di controllo delle poste e di Deutsche Telekom) è simile a quello della Cdp e della Caisse des depots, con la differenza che KfW si approvvigiona direttamente sul mercato dei capitali grazie alla sua tripla A. Dunque, pur essendo da iscrivere nell’ambito dell’intervento pubblico, la santabarbara tedesca potremmo definirla più mercatista di quella italiana e francese, meno dipendente dal mondo bancario.
Bilancio della Cassa Depositi e Prestiti
Dopo l’accordo stipulato nel 2003 da Giulio Tremonti con Giuseppe Guzzetti, padre-padrone delle fondazioni di origine bancaria, la Cdp è stata controllata attraverso un gioco a tre: Tesoro (che detiene l’80%), banche e partiti. Le fondazioni, con il 18% del capitale, esprimono il presidente, Franco Bassanini, giurista e uomo politico, già socialista, poi Pd, ex ministro; mentre l’amministratore delegato Giovanni Gorno Tempini è un banchiere che viene da Mittel, la finanziaria di Giovanni Bazoli presidente di Banca Intesa, grande amico, socio e alleato di Guzzetti (quest’ultimo attraverso la Fondazione Cariplo è il principale azionista di Intesa). Il consiglio di amministrazione (rinnovato in gran fretta da Vittorio Grilli prima di lasciare la scrivania di Quintino Sella, è composto da alti funzionari del Tesoro (tra i quali Maria Cannata, la signora del debito nelle cui mani è il rifinanziamento di mille e settecento miliardi di titoli pubblici).
Secondo alcuni, i partiti vorrebbero mettere lo zampino nominando loro rappresentanti in consiglio di amministrazione, ma l’operazione appare molto rischiosa e ai limiti del lecito. Il rinnovo c’è stato, sia pur in zona Cesarini, rimetterlo in discussione non può che sollevare un putiferio. Ma è chiaro che, vista la sua importanza sempre più strategica, il governo intende tenere la Cassa sotto intensa osservazione. Il raggio d’azione sembra allargarsi a macchia d’olio, con una holding di partecipazioni come il Fondo strategico italiano (sul modello di quello francese creato da Nicolas Sarkozy nel 2008), il fondo infrastrutture F2i guidato da Vito Gamberale (dalle reti idriche agli aeroporti) e il Fondo investimenti che interviene direttamente nelle imprese con progetti a medio-lungo periodo. Dunque, a differenza da altri carrozzoni pubblici, possiede una cassetta di strumenti pronti all’uso. Il governo Monti ha affidato alla Cdp anche il sostegno del commercio estero attraverso Sace, la compagnia che assicura le esportazioni, una leva strategica fondamentale: è proprio grazie all’export che l’Italia ha evitato il declino e la sorte della Grecia o del Portogallo.
Il ruolo delle fondazioni è da tempo nel mirino, ma servono a deconsolidare la Cassa e i suoi interventi dal bilancio dello stato, quindi non se ne può fare a meno. È vero che attraverso di loro passa la longa manus della politica, perché gli amministratori vengono nominati dagli enti locali. Tuttavia Guzzetti finora è stato abilissimo a impedire che diventassero ancelle degli interessi di partito. Il dibattito ideologico può andare avanti all’infinito, ma in concreto si stenta a identificare un esponente di partito di un certo rilievo che abbia una funzione importante nelle fondazioni. Lo stesso non si può dire per le banche, anche le più grandi e quelle che rendono ogni giorno omaggio sull’altare del mercato.
In questi anni, soprattutto in seguito alle scelte di Tremonti e Guzzetti, è stato messo in piedi uno strumento pieno di grandi potenzialità (e di pericoli insistono i liberisti). Monti l’ha potenziato. Il governo Letta intende usarlo in modo attivo. Come? Il ministro dello sviluppo Flavio Zanonato (Pd) vorrebbe far entrare la Cdp direttamente nel capitale di Telecom e persino dell’Alitalia, per proteggere i campioni nazionali. Proprio il Pd sembra il partito più interessato alla stanza dei bottoni nel palazzone umbertino di via Goito, accanto al ministero del Tesoro, del quale la Cassa protegge il fianco destro. Marco Vitale, uno dei più noti e rispettati economisti e consulenti d’impresa, parla di “rivoluzione”, ma bisogna ricordare che è stato fino a poco tempo fa il presidente del Fondo italiano d’investimento, il terzo dei fondi Cdp, che da solo gestisce investimenti diretti per 186 miliardi non in società in crisi, ma in imprese con una prospettiva di sviluppo.
Una cosa è certa: lo stato siede al volante di una macchina rodata che deve ancora manifestare tutto il suo potenziale. Fermarla è impossibile. Un dibattito da tarda scolastica, tipo se la Cdp è forma o sostanza, diventa del tutto ozioso. Ben più utile è discutere sulla sua strategia e sulla sua governance, sul rispetto della concorrenza, sulla trasparenza delle scelte che spesso sono apparse esposte alla discrezionalità dei ministri.
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