Il baratro era più vicino di quanto immaginato. Quando alla fine del 2011 la pressione della speculazione internazionale si faceva più intensa, nei Palazzi romani le massime istituzioni erano già preparate al salto nel buio. Tanto che sull’asse Palazzo Chigi-Banca d’Italia era stato persino studiato un decreto di chiusura dei mercati finanziari. La bombastica rivelazione è apparsa ieri sul Corriere della Sera, in un editoriale a firma del direttore Ferruccio de Bortoli. Anche a distanza di due anni, la lettura di quel passaggio provoca un brivido. Senza saperlo, gli italiani si sono fermati a pochi passi da una crisi drammatica. Sfiorando una deriva forse peggiore di quella greca.
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I diretti interessati smentiscono. Ovviamente si parla del governo Berlusconi IV, l’ultimo guidato dal Cavaliere. «Nelle ore più drammatiche di quel tardo autunno, un decreto di chiusura dei mercati finanziari era già stato scritto d’intesa con la Banca d’Italia» scrive il Corriere. La notizia è precisa (ed evidentemente verificata). Ma i protagonisti di quell’esecutivo assicurano di non saperne nulla. Il primo a mettere in dubbio la ricostruzione è l’allora titolare dell’Economia, Giulio Tremonti. Lo fa pubblicamente, con una lettera al quotidiano di via Solferino. Lo scoop sul decreto che avrebbe chiuso il mercato finanziario «mi giunge nuovo», racconta. Certo, in quel periodo i rapporti tra il ministro e il premier Silvio Berlusconi non erano dei migliori. Ma è difficile che il responsabile del Tesoro fosse all’oscuro di un simile provvedimento. Peraltro «nei verbali del “Comitato di sicurezza finanziaria” congiunto tra ministero dell’Economia e Banca d’Italia – scrive ancora Tremonti – non ce n’è traccia».
Impossibile derubricare la ricostruzione del direttore del Corriere della Sera a un abbaglio. «Quel decreto rimase in cassaforte – e speriamo che vi resti per sempre –, ma vi fu un momento nel quale temevamo di non poter più collocare sul mercato titoli del debito pubblico», spiega de Bortoli, lasciando intendere di saperne abbastanza. Chi all’epoca frequentava Palazzo Chigi conferma la versione di Tremonti. «A me non risulta nulla» giura Mara Carfagna, già ministro delle Pari Opportunità. «Quel decreto è una leggenda metropolitana» rincara Carlo Giovanardi, ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio. «Un documento che non ha mai visto nessuno». Peggio, il racconto del Corriere è una «clamorosa non-notizia» dice Francesco Saverio Romano, allora titolare dell’Agricoltura. «Non mi occupavo di quei temi – ammette Mariastella Gelmini, all’epoca ministro della Pubblica istruzione, Università e Ricerca – ma se qualcuno stava preparando un decreto di quel tipo lo avrei saputo. E invece non ho mai sentito nulla».
Non sono voci isolate. Se davvero quel provvedimento è stato firmato, al governo nessuno ne era a conoscenza (resta improbabile che la responsabilità sia di oscuri funzionari del Tesoro). «Non ne ho mai sentito parlare» ammette anche Ignazio La Russa. Non è una dichiarazione priva di significato. Da ministro della Difesa La Russa frequentava Palazzo Chigi, ma da coordinatore del Pdl era assiduo ospite anche di Palazzo Grazioli. «Mai visto un simile decreto, nella maniera più assoluta» conferma Gianfranco Rotondi, già titolare dell’Attuazione del programma di governo. A detta dell’ex democristiano quel governo lasciò per una crisi politica «non avevamo più i numeri in Parlamento», non per le vicende finanziarie. «Il quadro dei conti pubblici è sempre stato sotto controllo, come ci confermò Tremonti in una delle più drammatiche nottate a Palazzo Chigi».
Tra quel gruppo dirigente c’è chi, senza smentire il Corriere della Sera, avanza una diversa lettura di quelle vicende. «Chissà – dice qualcuno – forse a scrivere quel decreto è stato il governo successivo. Magari a mettere le mani avanti è stato proprio Mario Monti…». I tempi coincidono. Nel suo editoriale de Bortoli parla delle «ore più drammatiche di quel tardo autunno». Quando Silvio Berlusconi rassegna le dimissioni è il 12 novembre. Il professore giura da presidente del Consiglio solo pochi giorni dopo, il 16. Al centro del caso c’è uno dei primi atti dell’esecutivo tecnico? Un piano B studiato per affrontare la crisi, fortunatamente mai messo in pratica?
A scagionare il governo Monti invece è direttamente Elsa Fornero. L’ex ministro del Lavoro e Politiche sociali ha letto le indiscrezioni del Corriere, «un editoriale molto bello, che ha reso perfettamente il clima che si respirava in quei giorni». Ma respinge la paternità di quel decreto: «L’avevo interpretata come un’azione relativa al precedente governo». La memoria torna a due anni fa. «Ricordo benissimo quei giorni, ero impegnata a scrivere la riforma delle pensioni. E non posso dimenticare un sabato particolarmente drammatico». Al Tesoro viene organizzata una riunione della cabina di regia di quel governo. Ci sono Mario Monti, Elsa Fornero, il ministro dello Sviluppo Corrado Passera, il titolare dei Rapporti con il Parlamento Piero Giarda. Un gruppo ristretto di tecnici e capi di gabinetto. «Abbiamo parlato a lungo delle misure da prendere. C’era la sensazione che la situazione fosse davvero drammatica, ma nessuno ha mai neppure menzionato un decreto di quel tipo». C’è un altro motivo che scarica la responsabilità dal governo tecnico. Il ministro Fornero lo spiega con estrema semplicità. «Un simile provvedimento era contrario allo spirito del nostro esecutivo. Noi volevamo salvare l’Italia, non certificare la sua caduta nel baratro».