Un affettuoso «vive le roi» buttato lì, nel centro di Bruxelles, da qualche cittadino belga di ogni età: anche questo era un brano di telegiornale delle settimane scorse. Alberto II (nome completo: Albert Félix Humbert Théodore Christian Eugène Marie), il re quasi ottantenne, aveva appena detto che avrebbe abdicato lasciando il posto al suo primo figlio Filippo (Philippe Léopold Louis Marie), nato nel 1960: con cerimonia di passaggio stabilita per il 21 luglio prossimo. La notizia colpiva, e colpisce, per diversi caratteri. Primo: il suo impatto diversivo rispetto ai toni normali delle cronache dall’Europa. Centrate, anche comprensibilmente, sulle derive dell’Unione. Economiche, sociali, politiche: il tracollo greco, quello spagnolo, quello cipriota, l’Italia sorvegliata speciale, la disoccupazione montante, la fascistizzazione dell’Ungheria, il farsi largo di destre varie e tornate à la page. Secondo: il ritiro veniva ovviamente annunciato a Bruxelles, capitale del regno, di uno Stato federale a rischio di deflagrazione, ma anche capitale europea. Una città-istituzione, quasi extra belga, extra fiamminga, extra francofona. Terzo: la voce della monarchia che si ritirava per dare voce e sostanza alla continuità monarchica, avvertiva di quanto in Belgio sia ancora “il corpo del re” a garantire, per ora, l’integrità istituzionale del Paese (un po’ come in Spagna, nonostante le ultime défaillance personali del re Juan Carlos, e di sua figlia, l’Infanta Cristina). Quarto: l’abdicazione di Alberto seguirà di pochi mesi quella già avvenuta di Beatrice, sovrana dei Paesi Bassi, dove oggi regna, dall’aprile scorso, il figlio primogenito Guglielmo Alessandro.
È successo lì – negli attualissimi, belgi, centri del potere europeo, o dalle parti, olandesi, della Corte internazionale di giustizia – qualcosa di normale, di plurisecolare, e sanamente fuori moda. Qualcuno – i vertici di due Stati e della loro rappresentanza – ha abdicato. All’antica. Non ha “dato le dimissioni”. Diversamente dai vecchi a capo delle Repubbliche, e dal colpo scenico del penultimo Papa, ora “emerito”, accade che una regina protestante e un re cattolico mollino nella terza età e secondo una laica tradizione di trasmissione del ruolo: passare la mano a un erede, ovviamente non eletto. Il fatto che Beatrice d’Orange-Nassau e Alberto de Saxe-Cobourg-Gotha fossero stanchi di quella rappresentanza, o abbiano scelto di proteggerla ulteriormente col trasferimento di consegne, non cambia i termini di una sorpresa prevista dagli usi. Diversamente da ogni Pontefice romano (obbligatoriamente maschio, celibe, ed eletto a suffragio ristrettissimo) sono una donna e un uomo che hanno rifatto famiglia, come i loro pari ruolo e i loro antenati, sapendo quanto sia vitale perpetuarla con figli e figlie. Come garanzia pubblica di continuità, come eredità storica, come centro civico di unione. Spesso più che civile e rispettato: è stato il caso personale di Beatrice e Alberto (da non dimenticare come lui, il re trilingue di tutti i belgi, nel passato discorso di Natale abbia educatamente bastonato il nazionalismo fiammingo, tanto repubblicano, quanto egoisticamente liberista, xenofobo e provinciale).
Più in generale, il caso, o i casi, delle monarchie in Europa con il loro diritto di abdicare, coincide con qualcosa di caratteristico: la varietà istituzionale del continente. Un’evidenza sostanziale: in un concentrato politico fra i più piccoli del pianeta (prevalentemente repubblicano), vivono dieci sovrani in carica. Uomini e donne, re e regine, principi (Monaco e Liechtenstein) e granduchi (Lussemburgo). La versatile Europa offre perfino il prototipo di un microstato montano (Andorra) dove i capi di Stato (i co-principi del principato) sono due: il vescovo della diocesi spagnola di Urgell (ora, è Joan Enric Vives i Sicília) e il presidente della Repubblica francese (il socialista François Hollande è dunque anche principe d’Andorra). In sintesi, si parla di un continente variamente costituzionale dove, nonostante le già citate derive, è ancora piacevole vivere. Per un mazzo di ragioni basilari, conquistate dopo fiumi di lacrime e sangue: i diritti degli uomini e delle donne, e le possibilità, o le aule dove difenderli, le protezioni sociali pubbliche (finché durano e finché non smettono di essere considerate un passaggio di civiltà), le “pari opportunità” in senso lato, l’accoglienza dello “straniero” (già citata nel quinto secolo avanti Cristo, da Pericle, nel suo celebre discorso) e la sua eventuale cittadinanza, la definitiva scomparsa di capestri, ghigliottine, o plotoni d’esecuzione, un tempo legalizzati e praticati (in nome del popolo o del re). In definitiva, i caratteri principali in cui l’Europa – monarchica e repubblicana – fa ancora testo. O primo specchio in cui guardarsi, a disposizione dei propri cittadini. Con una considerazione altrettanto di base, e perfino ovvia: l’“ordine della società” – anche rappresentata da una “famiglia reale”, dal suo pubblico credo, e da una tradizione – si muove, cambia. O, non semplicemente, fa ginnastica per non anchilosarsi. Se c’entra la moda, è solo un affare personale di chi la segue, perché c’entrano soprattutto le vite, e i credi, o i valori, o le scelte private e altrettanto “reali” di ognuno, e le leggi che le riconoscono o dovrebbero farlo.
Si sa che i monarchi e le regine (come i presidenti e le presidentesse) promulgano le leggi, le firmano. Come capi e rappresentanti dello Stato. Con diversi livelli di potere, anche quando, ormai, monarchi “cerimoniali”. A volte, se ne hanno il carisma, lo fanno anche come simboli naturali delle proprie “società”. A questo proposito, l’Europa degli ultimi decenni ha prodotto diversi colpi d’occhio e di sostanza degni di nota. Dove c’entravano, in senso lato, anche le firme di due re cattolici: a specifiche leggi su certi diritti civili (dell’uomo e della donna) variamente dibattuti. Leggi di libertà, di eguaglianza, in avanti. Tutto normale, a Madrid, per il re Juan Carlos, al momento della firma alla legge Zapatero (governo socialista) sul riconoscimento dei matrimoni gay: 187 sì, e 147 no, in prima approvazione, alle Cortes, nel 2005. Poteva rifiutare il sigillo, il re? Difficile immaginarlo, non solo per la Costituzione ma anche per il suo carattere, liberale, in ogni senso (quasi un personaggio alla Almodóvar, con una hispanidad contemporanea, complessa e diretta, un Borbone normale come un cittadino, nonché discendente in linea dritta da un re assoluto come Luigi XIV…).
Tutto eccentrico, invece, a Bruxelles, il 4 aprile 1990: con il cattolicissimo re dei belgi Baldovino (fratello di Alberto) che abdicava per due giorni per non dover firmare, e promulgare, la legge che depenalizzava l’aborto entro limiti precisi e medicalmente accertati. Al primo ministro Wilfried Martens, Baldovino aveva scritto una lettera decisamente sincera: dove il dovere costituzionale sovrano passava in secondo piano rispetto alla privata “coscienza dell’uomo”. Quanti belgi si saranno rispecchiati nell’idea di “vita” e di famiglia di quel re senza figli, coerente a se stesso, e comunque rispettoso della democrazia? Una buona parte, senz’altro.
Ad oggi, tra le undici monarchie europee, ben sei prevedono il matrimonio gay (Spagna, Norvegia, Svezia, Danimarca, Belgio, Olanda), quattro l’unione civile tra persone dello stesso sesso (Gran Bretagna, Andorra, Liechtenstein e Lussemburgo), solo Monaco né l’uno né l’altra. Quanto ha cambiato la vita degli spagnoli – e la consapevolezza di sé stessi (gay e non gay) – quella legge aperta alla vita reale, e promulgata da quel re Borbone? Moltissimo. Al punto che chi pensa di rimetterla in discussione, in nome di un ritorno “all’ordine della società”, dovrà faticare non poco. Di fronte a un Paese e a un continente (di re e repubbliche) che resta a dir poco versatile. E con orizzonti aperti per tutti.