Il lancio del nuovo programma dedicato agli Investimenti Diretti Esteri #DestinazioneItalia da parte del Governo è una buona occasione per sgombrare il tavolo dai recenti schizzi d’inchiostro sulle acquisizioni straniere nel Belpaese, e metterci pochi punti fermi su cui discutere.Riferendosi alle linee di indirizzo del progetto, che verrà messo a punto “entro la fine dell’anno”, il Ministro Bonino, sul Sole24Ore dice che si tratta di “individuare che tipo di investimenti vogliamo attrarre prioritariamente e da quali Paesi esteri”. È una buona idea?
Il mantra di questi giorni è “shopping straniero…i padroni dell’Italia… il sacco d’Italia… all’estero si mangia italiano… i predatori stranieri…”. Si fa un gran parlare, ma le idee non sono chiare, partendo dal fatto che il privato fa quel che vuole e, salvo errori o interessi nazionali impellenti, è giusto che anche le acquisizioni recenti vengano archiviate come le consuete dinamiche di maercato.Ma se volessimo muoverci agilmente, con un approccio molto semplice, da quali basi potremmo cominciare, e verso quale direzione?
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È facile “fare i conti” sugli Ide? No.
Contare gli Ide è difficile per diversi motivi. I dati, quando arrivano, sono sempre in ritardo, e basta una grossa acquisizione straniera in Italia, per vanificare la bontà dei dati, e gonfiarli viziando la lettura dei trend storici. Sono spesso visibili e quantificabili solo le operazioni realizzate su imprese grandi e note, ma altrettanto spesso, sfuggono ai conti le acquisizioni di imprese di nicchia, magari della meccanica o della meccatronica, meno note alla stampa. Anche i media possono fare la loro parte e per questo la chiusura di una importante sede Nokia può passare in sordina e finire in un trafiletto a pagina 10, mentre può campeggiare sui giornali per giorni l’acquisizione di una Richard Ginori, brand affermato, anche se è un’operazione di pochissime decine di milioni di euro. Conclusione? Vuoi per le leggi sulla comunicazione al mercato, vuoi perché nessuno sapeva o vedeva niente, intervenire è difficile perché la notizia arriva a giochi fatti. Che fare? Monitorare sempre, perché prevenire è meglio che curare.
Gli Ide fanno sempre bene? Dipende dall’investitore.
Le sale convegni sono sempre piene di seminari per dire sempre le stesse cose: che belli gli investimenti diretti esteri, quanto è difficile fare business in Italia. Ma la bontà di un investimento non si giudica dal passaporto dell’investitore, ma dalle sue intenzioni. Quindi c’è da far sapere ai nostri decisori che non è il caso, soprattutto nel campo del libero mercato, di dire “individuare da quali Paesi vogliamo attrarre gli investimenti”, tanto più se ci sono buoni investitori stranieri come cattivi investitori italiani.
Ci sono investimenti esteri buoni e cattivi? Sì, leggere alla voce cassa, dipendenti e dimensioni.
È cattivo un investimento solo finanziario, votato solo all’estrazione del dividendo o all’appropriazione della cassa in dote all’azienda “preda”, e peggio ancora se promette l’apertura di stabilimenti e la creazione di posti di lavoro per poi non realizzarle e invece si distrae con altri interessi; come pure è cattivo un investimento che genera spezzatini per estrarre valore dalle singole attività, e fa disperdere competenze, sinergie e lavoro. Ma anche gli investitori italiani lo fanno.Conclusione? È buono un investimento che crea lavoro, sviluppo, PIL, magari ricerca e innovazione, e se semplifica e/o migliora la vita del cittadino/consumatore.
Ci sono imprese di interesse nazionale? Sì, ogni Paese ha le sue.
È inutile dannarsi in virtù di qualche ideologia tanto, quando arrivano le ondate di acquisizioni, come quella recente, crollano tutti i castelli di sabbia di liberismo e statalismo e si ragiona con la mente disturbata. Se perdiamo una delle oltre 1.000 nicchie di eccellenza di prodotto, per cui siamo quarti al mondo, non ci dovrebbero essere grandi problemi se, come scriveva l’economista Cipolla, siamo condannati a inventare sempre cose nuove che piacciano al mondo. Altro conto è cedere pezzi di colossi energetici, dove magari c’è già qualche fondo estero che vigila per conto di competitors stranieri con un 1% “di controllo” – nel senso di verificare, non comandare –, far entrare investitori esteri nelle utility dove gli investimenti nello sviluppo sono bloccati, e dove gli investitori stranieri non se la sentono di impegnare denaro per l’ultimo miglio per far arrivare energia o banda larga ai territori che solo allo Stato possono interessare.
Gli investitori esteri cercano tutti la stessa cosa. Falso.
Se fossimo imprenditori stranieri, perché venire in Italia? Se tutti gli indicatori di consumo interno hanno davanti un segno meno, non investiremmo certo per avere accesso al nostro mercato. Le intenzioni variano a seconda delle tipologie di business e della provenienza degli investitori: c’è chi viene perché l’Italia è un ponte logistico verso altri Paesi (il Mediterraneo), chi perché garantisce prodotti eccellenti per la sub-fornitura (come la Germania), chi vuole conquistarsi prodotti affini ai suoi settori forti (è il caso della Francia nell’alimentare e nel lusso), chi altro viene per mettere soldi freschi in investimenti finanziari pazienti, che alla lunga possono rendere (è il caso di fondi sovrani del Mediterraneo) o chi altro lo fa per mettere le mani su settori che considera alternativi e complementari ai suoi (come spesso accade per i Fondi sovrani del Golfo). Conclusione? Tutti hanno le loro buone ragioni. Sarebbe sano se pensassimo alle nostre.
Le imprese straniere in Italia fanno meglio che le italiane? Falso.
C’è chi investe e nel giro di due anni chiude, chi lo fa per estrarre liquidità imprudentemente accumulate, chi entra e licenzia, chi investe e snatura il prodotto privando l’impresa dei suoi vantaggi competitivi. È il mercato bellezza. Conclusione? Neanche le strategie industriali hanno il passaporto. Meglio fare attenzione alle ottime performance delle imprese italiane aperte dagli stranieri (italiani di seconda generazione).
Tra investimenti Brown o Green field c’è differenza? Eccome, basta conoscerla.
Fa bene il Ministro Bonino a dire “decidiamo quali investimenti vogliamo attrarre”. È ora che la politica si interroghi sui punti sopra, per capire quali investimenti fanno bene al Paese, quali ci interessano di più e magari quali da cui stare alla larga. Avanti così. La difficoltà di fare business in Italia è nota, e il mercato è fermo, ma ci sono ancora spazi per nuovi modelli di business. Un esempio: il servizio innovativo di noleggio auto Uber, che oggi fa a botte con la lobby dei tassisti. Conclusione? Tirar fuori le chiavi ed aprire dove il mercato è chiuso, e magari chiuderlo ai cattivi intenzionati che vogliono mettere le mani solo su business protetti, tariffe e bollette comprese.
La posizione migliore? Forti nel pubblico e aperti nel privato.
Paesi “giovani”, come la Turchia o la Corea del Sud, possono permettersi di scegliere su quali settori puntare e, per esempio, incentivare quei comparti che considerano fondamentali per lo sviluppo e di cui sono carenti di know how in ambito nazionale (aerospazio, militare-difesa…). Avere le idee chiare su quali business proteggere e quali incentivare sarebbe il giusto approccio, diventando liberisti quando si puote, e protezionisti quando si deve. Ad oggi siamo stati deboli quando c’è stato da attaccare ed acquisire aziende estere, ed indifesi quando la necessità era proteggersi da acquisizioni dolorose. Conclusioni? Mettere in pista una finanza pubblica forte, da far giocare a pari merito, con regole certe, insieme o contro investitori esteri pubblici e privati. E se c’è da fare una nuova IRI la si faccia, ma solo per i settori e le imprese che meritano davvero uno sforzo pubblico.
Tutto quello che vale per gli investitori stranieri vale anche per gli italiani? Vero, avanti con juicio.
In Italia fare impresa è difficile per tutti, stranieri ed italiani, e ne abbiamo parlato già a lungo, dai tempi della prima lenzuolata Bersani (1996). Oltre agli ostacoli economici (costo del lavoro, costo del credito alle imprese, prezzo dell’energia, produttività del lavoro, tax rate elevato, efficienza della logistica) ci sono quelli strutturali ed organizzativi (scuola e formazione, complessità della regolazione, ipertrofia normativa, giustizia lenta, burocrazia, fisco). Da allora cosa è cambiato? Poco, quindi Destinazioneitalia valga sia per gli stranieri che per gli italiani, perché per ogni euro che non arriva in Italia per questi ostacoli, ce n’è un altro che in Italia è fermo e per questi stessi motivi non si muove dalla cassa dei Paperoni italici. Il denaro non ha passaporto e, nell’incertezza, aspetta paziente i tempi migliori.
Twitter: @antoniobelloni1