MiTo ci ha abituati troppo bene. Ci ha viziato accompagnando con tanta musica l’inizio delle attività. Edizioni sempre molto ricche ed eterogenee impongono una scelta. Gli anniversari tengono la barra (da Gesualdo a Berio, da Corelli a Lutoslawski passando per Hindemith, Rachmaninov e Britten) e ce n’è per tutti i gusti anche se in questa edizione si può intuire qualcosa di nuovo: rispetto alle precedenti, c’è più spazio per la cosiddetta musica contemporanea.
Restagno chiama questa svolta «un inno al presente». E qualche segno si vede. Come la serata di omaggio al Gruppo 63, e la scelta di sottoporre il pubblico torinese all’ascolto “dilatato” (6 ore!) del Quartetto n. 2 di Morton Feldman: una simpatica prolessi di Milano Musica, quest’anno incentrato monograficamente sull’opera del compositore americano. Ma soprattutto c’è George Benjamin. E la differenza la fa proprio la presenza in cartellone di questo prezioso e precoce compositore, anello di collegamento tra la più solida tradizione anglosassone e il più agguerrito sperimentalismo continentale. Benjamin è un figlio di Purcell come di Birthwistle, allievo di Messiaen per la composizione e di Yvonne Loriod per il pianoforte, ed ha incrociato nella sua adolescenza un terzetto d’eccezione: Boulez, Stockhausen e Berio.
Se Feldman e Benjamin fanno un bel “duetto” – e in questa edizione di duetti ne ascolteremo trentaquattro di Berio (per due violini) e uno di Benjamin (per pianoforte e orchestra) – bisogna riconoscere che non ci sono due compositori più diversi tra loro. Feldman propone un suono depurato, verticale, proveniente da un mondo sospeso e indivisibile. Benjamin, quasi avesse fatto propria la regola di Yeats secondo cui nessuna unità esiste senza divisione, insegue invece la linea dell’orizzonte tracciata dai colori e dalle forme poetiche. Se dovessimo riassumere la sua personalità potremmo dire che il talento e la versatilità di questo “boy” ormai brizzolato derivano da una quasi costante insoddisfazione creativa che ogni volta lo porta a mostrare un nuovo volto di sè.
Forse proprio per questo MiTo sceglie di far ascoltare gran parte della sua tavolozza orchestrale: da Ringed by the Flat Horizon – brano che lo ha fatto conoscere e reso “popolare” (essendo stato riproposto ai Proms) – a At first lighte a A Mind of Winter, tutti degli anni ’80. Del decennio successivo: Upon Silence e Three Inventions, fino a giungere a Palimpsests e agli schizzi coreografici di Dances Figure.
Decisamente un bel viaggio. E scegliere di farsi portare in giro da questo “boy G” potrebbe anche essere un modo concreto per allontanare dal denso programma settembrino il pericolo di una grande abbuffata.