Un Bale e mezzo. Tanto è costato il Washington Post: 189 milioni di euro. Una cifra “normale” nel calcio — dove l’ala sinistra del Tottenham viene valutata 120 milioni, e Leo Messi oltre 500 — ma ragguardevole per l’editoria. Basti pensare che pochi giorni fa, un altro grande giornale statunitense, il Boston Globe, era stato ceduto per un assegno decisamente meno ricco, 53 milioni di euro (meno del 10% della cifra pagata da NY Times company una decina di anni fa). Un quindicesimo rispetto a quanto valeva nel 1993, 830 milioni.
Come Bale, anche il Washington Post unisce talento e potenza a fondamenta fragili: se l’esterno gallese è stato tradito più volte dalle caviglie, il Post ha mostrato ultimamente qualche problema di stabilità (56 milioni di perdite tra 2011 e 2012). Lo ha ammesso anche Donald Graham, il CEO della Washington Post company, il più alto rappresentante della famiglia che guida il quotidiano americano dal 1933. Sua nonna, Eugene Meyer, comprò il WaPo in bancarotta per pochi spiccioli, a dimostrazione di come le crisi — anche nel giornalismo — siano cicliche; suo padre Donald e sua madre Katharine lo guidarono per decenni, tra il 1945 ed il 1990, durante il periodo di massimo splendore.
Entro sessanta giorni, il Post passerà nelle mani del suo nuovo proprietario: Jeff Bezos, 49 anni, «persona dell’anno» per TIME nel 1999, fondatore e proprietario di Amazon, tra i venti uomini più ricchi al mondo, membro del Bildeberg Group con una passione per l’editoria. Pochi mesi fa, aveva investito cinque milioni in Business Insider, influente testata di informazione economica e tecnologica, per potenziarne la struttura redazionale. Un investimento che, ieri, il Washington Post ha riportato come esempio virtuoso degli intenti di Bezos. Il quale, comprendiamo oggi, navigava già verso orizzonti più ampi di BI: il Post infatti, insieme al New York Times, ha pubblicato alcune delle pagine migliori del giornalismo d’inchiesta made in USA.
Un passato importante catapultato nelle braccia del futuro: il Re Mida dell’e-commerce si prende il tempio che fu di Bernstein e Woodward, ma anche di Meg Greenfield e Charles Krauthammer e Barton Gellman e David Finkel. Qualche motivo di apprensione, evidentemente, c’è. Ma Bezos, sospettato di tendenze di concentrazione di media, business simil-berlusconiane, ha cercato di imbrigliare fin da subito i dubbi: «I valori del giornale non hanno bisogno di essere modificati», ha scritto ai dipendenti. «L’impegno del giornale rimarrà rivolto ai lettori e non agli interessi privati dei suoi proprietari. Continueremo a perseguire la verità ovunque ci porti, e lavoreremo con impegno per non compiere errori. Quando ne commetteremo, ripareremo in fretta e completamente».
Belle parole, corredate da alcune riflessioni sull’«importanza del giornalismo nella società libera», sull’abilità di Donald Graham, sulla necessità di cambiamento. Negli ultimi anni, il Washington Post è diventato la culla dell’innovazione tecnologia del giornalismo: dentro ai suoi Labs, ingegneri dell’informazione hanno lavorato a lungo per sviluppare nuovi strumenti e nuove tecnologie utili per raccontare storie e realizzare inchieste. Bezos, ci auguriamo, continuerà su questa strada di innovazione: «Avremo bisogno di inventare, di percorrere nuovi percorsi senza affidarci a una mappa», ha dichiarato l’imprenditore. Che ha sottolineato l’importanza di «ripartire dai lettori». Saranno proprio loro, alla fine, a decidere se il Post avrà un futuro, se varrà ancora il prezzo del biglietto. Anche qui, è un po’ come nel calcio.
*autore dell’ebook: Tutta un’altra notizia. Spunti e strumenti per il giornalismo del domani (goWare, 2013)
Twitter: @valeriobassan