VICENZA – Un’insegnante «atipica». Così Mara Seveglievich, professoressa di storia dell’arte, definisce se stessa. Sposata, con una figlia, la Seveglievich insegna al locale liceo classico “Antonio Pigafetta”. Una scuola, sostiene, «indispensabile alla formazione dei vicentini». Se le si chiede del cognome, anch’esso un po’ atipico, risponde raccontando la storia della famiglia paterna: i nonni di Spalato, città della Dalmazia oggi croata; la forzosa emigrazione in Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale; il matrimonio del papà (ufficiale di fanteria) con la mamma vicentina doc; gli anni romani, dove il papà lavora per i servizi segreti; il ritorno in Triveneto, per volontà della mamma…
Avere sangue dalmata significa avere sangue da tutta Europa: sangue italiano, ma anche slavo, turco, ungherese. E in effetti la Seveglievich sembra avere un grande amore per il Vecchio Continente, e la sua cultura meticcia: si dice innamorata del pittore fiorentino Bronzino e del Barocco spagnolo, di geni ottocenteschi come il francese Édouard Manet e di artisti contemporanei come la serba Marina Abramović. A Linkiesta la Seveglievich, insegnante dal 1979, racconta la bellezza, e la frustrazione, di insegnare storia dell’arte in un Paese che svende e privatizza il suo patrimonio artistico. Parla dei ragazzi di oggi, intelligenti ma insicuri. E soprattutto rivela il vero obiettivo del suo mestiere: «Insegnare agli studenti ad aprire la mente.»
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Perché ha scelto di insegnare, professoressa?
Dopo la laurea mi sarebbe piaciuto lavorare presso una casa editrice, ma non fu possibile. Allora ho cominciato a insegnare, prima alle medie poi al liceo, e mi è piaciuto. Insegnare è bellissimo, estremamente gratificante, perché è un mestiere basato sulla relazione umana. È un lavoro che dà molto, a me prima di tutto.
Cosa significa insegnare storia dell’arte?
Da un certo punto di vista è l’ideale, perché si tratta di una materia affascinante, che non richiede di motivare gli studenti. In classe loro sono già motivati: l’arte è bella, l’arte a tutti piace.
Non proprio a tutti, magari…
Magari proprio a tutti no, ma alla maggior parte degli studenti sì, anche quando la si insegna in un liceo classico, dove la formazione è di tipo diverso, e le materie elettive sono altre: il greco, la filosofia, la storia, il latino… Tuttavia i miei studenti apprezzano la storia dell’arte più di tante altre materie. Attenzione: dico “apprezzano”, non “studiano”, che è cosa diverso. Io peraltro non pretendo che studino storia dell’arte più di tanto, pretendo invece che seguano, ascoltino, siano interessati. La mia è una materia minoritaria nel curriculum, ancillare con la a maiuscola. E io sono orgogliosa di questa Ancillarità, e a differenza di altri colleghi riconosco la preminenza della filosofia, della storia, dell’italiano, della matematica.
Perché si definisce un’insegnante “atipica”?
Perché amo spaziare, andare oltre la storia dell’arte, toccando ambiti diversi come la letteratura, la poesia, la storia. Mi piace colpire “al cuore” gli studenti, e lo faccio anche insegnando loro a non avere pregiudizi, a pensare in modo un po’ trasgressivo, ad aprire la mente. La scuola, purtroppo, tende invece a omologare, almeno in linea generale.
Cosa si prova a insegnare storia dell’arte in un Paese che manda in malora Pompei?
È frustrante. L’Italia sta svendendo e privatizzando il suo patrimonio di territorio e arte; su questo è intervenuto un grande come Salvatore Settis, e io sono convinta che abbia ragione. Ma le dirò di più: com’è essere insegnante di storia dell’arte in una città, Vicenza, che ha una periferia simile o addirittura peggiore di quella di una città post-sovietica? Una periferia impresentabile. Qui a Vicenza chi amministra si occupa del centro storico ma non della periferia. Mentre io ho un vero e proprio culto della bellezza.
Lei è a contatto tutti i giorni con gli adolescenti. Cosa pensa di queste nuove generazioni?
Trovo i ragazzi di oggi molto intelligenti, ma ondivaghi, e pochissimo determinati. Dopo il diploma si prendono degli anni sabbatici perché non sanno realmente quello che vogliono fare. Non hanno obbiettivi. Oppure hanno degli obiettivi, ma impostati dall’educazione familiare: devo fare il medico… perché papà è medico; devo fare l’avvocato… perché papà è avvocato; devo fare il giudice… ha capito, insomma. Spesso non sanno cosa gli piace: si preparano per il test di medicina, però se va male sono pronti a iscriversi a giurisprudenza. Ma cosa c’entra il diritto con la medicina ?
In che cosa i ragazzi di oggi sarebbero diversi rispetto al passato?
Sono poco interessati al sociale, con l’eccezione dei ragazzi cattolici. Alcuni di loro hanno posizioni politicamente un po’ estremiste, come è normale alla loro età, ma sono pochi, diciamo un ragazzo ogni ottanta, cento. E questo colpisce perché io mi sono formata negli anni Settanta, Ottanta.
Anni un po’ discutibili, dal punto di vista politico…
Anni magari discutibilissimi, ma bellissimi, anche perché si viveva in gruppo, si studiava in gruppo, si andava in vacanza e al cinema in gruppo. Gruppi di dieci, quindici persone. La mia impronta culturale e di pensiero, la mia Weltanschauung, non è solo familiare, l’ho sviluppata pure nell’ambito delle amicizie. Una volta per molti era così, mentre oggi i giovani conducono esistenze atomizzate. Sono degli insicuri, credo, troppo coperti dalle famiglie che così contribuiscono a renderli ancora più insicuri. E questo è uno dei gravi problemi della scuola, l’eccessiva copertura data dalle famiglie agli studenti. Detto questo, non voglio generalizzare. Come ho già detto prima, i ragazzi di oggi sono anche molto intelligenti, più in grado della mia generazione di riconoscere la qualità.
Lei, insegnante “atipica”, porta un cognome un po’ “atipico”, Seveglievich.
Mio padre era di Spalato, in Dalmazia. Dopo la Prima Guerra Mondiale la sua famiglia ebbe la possibilità di scegliere la cittadinanza italiana o quella del Regno di Jugoslavia, e il grosso della famiglia scelse l’Italia. Quindi mio padre, classe 1920, era un cittadino italiano all’estero. Lui e la sua famiglia erano italiani di Dalmazia, territorio che fino alla fine del Settecento era appartenuto ai Domini da Mar della Serenissima; la loro casa principale era a fianco del Palazzo di Diocleziano, e tra loro parlavano il dialetto triestino. D’altra parte a Spalato il 35-40% della popolazione era italiana… Si trattava di persone contaminate, nelle loro vene scorreva sangue italiano, slavo, turco. A seguito delle persecuzioni titine mio padre e la sua famiglia vennero profughi in Italia. Si stabilirono qui nel vicentino, a Bassano del Grappa. Mio padre intanto iniziava la carriera militare, e conosceva mia madre. Durante la Guerra Fredda, come ufficiale, lavorò anche per i servizi segreti: parlava il serbo-croato, gli fecero studiare un po’ di russo, e lavorò come traduttore di documenti.
Un’ultima domanda: secondo lei la bellezza salva?
Sono le persone che salvano. Non la bellezza, non la poesia, non l’arte. La bellezza, la poesia, l’arte contribuiscono alla qualità della vita ma non salvano. Aiutano, questo sì.
Lei ha anche la passione della scrittura. È autrice di un libretto di poesie, “Le ragioni del cuore”.
Amo molto scrivere, nel mio caso scrivere (soprattutto poesie) è terapeutico.
Twitter: @gabrielecatania