Come facciamo a non essere sommersi da tutta questa cronaca? Come possiamo conservare il necessario spazio dell’io, della soggettività?
La scrittrice tedesca Christa Wolf, che si è sempre domandata quale fosse il senso della scrittura in un mondo dominato dalla tecnica, nel 1960 decide di descrivere con fedeltà quello che le accade in una giornata precisa: il 27 settembre. Da allora per quarant’anni non smetterà di farlo, con precisione e ordine protocollare. Quello che possiamo trovare in “Un giorno all’anno” (Edizioni e/o) è un deciso contrappunto di fatti personali, impressioni, discussioni, relazioni ed eventi politici che vanno dall’erezione del muro di Berlino al crollo della RDT, fino al 27 settembre del 2000 quando all’una meno un quarto di notte, abbandonata la lettura, spegnerà la luce e andrà a letto.
Leggendo questo diario ci si chiede: cosa possiamo definire “banale” nella quotidianità? E cosa invece “significativo”? Il fatto che la figlia Tinka debba essere portata dal medico o il dolce nel forno che lievita a dismisura? L’uscita del romanzo di Anna Seghers o la sommossa dei neri a San Francisco? Il fatto che il mercoledì Christa possa tornarsene a letto dopo aver preparato la colazione alle figlie, o i timori per una Terza guerra mondiale?
Sia l’orrore per l’oblio sia il desiderio di consentire al caso di esprimersi in libertà, guidano la Wolf nel discernimento tra banale e significativo. Ma soprattutto il desiderio di collocare se stessa “storicamente”, senza dover cancellare gli errori commessi negli anni o i mutamenti dei propri punti di vista.
Insomma: per sfuggire allo stereotipo delle formule ed evitare di soccombere alla cronaca, la Wolf suggerisce di conservare – almeno un giorno all’anno – tutti i frammenti, tutti quei brandelli di storia che vanno a comporre un quotidiano alle volte banale, cioè privo forse di originalità, ma nel contempo “significativo”. E per la Wolf è questa la strada per costruire un soggetto autentico.