Festival del Cinema di Venezia: ecco i magnifici dieci

La kermesse chiude, cosa ci lascia

Tricolore sul Lido. Evviva. “Sacro Gra” è uno dei nostri film preferiti di questa Venezia 70. Per certi versi, il controcanto periferico e vitale agli sterili languori neodannunziani della “grande bellezza” sorrentiniana di Roma centro (che all’ultimo Festival di Cannes non aveva raccolto nulla). E dunque col film di Gianfranco Rosi cominciamo la nostra discutibilissima compilation della Mostra. Dieci tracce (più una fantasma) di quello che ci è piaciuto di più sui grandi schermi del serenissimo Lido.

ACRONIMO ROMANO. Potenza dell’ingegneria civile: fare del proprio nome un acronimo. Perché Gra oltre che Grande raccordo anulare è, in principio, la firma dell’ingegner Eugenio, Eugenio Gra. Primo presidente dell’Anas, fratello del minore e assai più dotato Giulio progettista di mezzi Parioli, Eugenio ebbe la geniale e piuttosto freudiana idea di eternarsi nell’opera maggiore che gli toccò gestire. La più grande autostrada urbana italiana, un anello d’asfalto che circonda per settanta chilometri la Capitale: dentro è Roma, fuori è il resto del mondo. L’idea del margine metro-esistenziale è alla base di “Sacro Gra” del documentarista Gianfranco Rosi, onorevole Leone d’Oro di quest’anno. Lungo il Gra si intrecciano storie, o meglio spezzoni di storie che catalizzano altre storie ancora: il principe con la magione anni Sessanta a Boccea, lo studioso delle palme, le anziane puttane, un pescatore di anguille, l’infermiere del 118, l’anziano attore di fotoromanzi, la signora sola davanti alla tv… Non importa che differenza passa tra il documentario e il cinema di finzione, sostiene Rosi, la differenza che conta è tra ciò che è vero e ciò che è falso. E in questo “Sacro Gra” si respira un’aria di verità che diverte e stupisce, si avverte il respiro genuino del cinema e della voglia di farlo. Rosi ha detto che per un anno si dedicherà all’insegnamento della regia. Fortunato chi lo avrà per insegnante. Informazione di servizio: il film esce il 26 settembre.

METTI UNA SERA A LONDRA. Che pensereste se vi dicessimo che uno tipo Gerry Scotti può essere un grande cineasta? No, non invocate i manicomi. Steve Knight un po’ di anni fa ha inventato per la tv il format di “Chi vuol essere milionario?” (lui ci è perfettamente riuscito, peraltro). Dopodiché ha traslocato al cinema: per dire, a Cronenberg ha fornito quel copione capolavoro che è “La promessa dell’assassino”, e per sé ha realizzato anche da regista prima “Redemption-Identità nascoste” (da noi esce a fine mese) e ora questo “Locke”. Un autentico gioiello. È chiaro che se hai Tom Hardy, uno dei massimi attori del mondo (gli adepti del culto nordico del Dio Refn lo ricorderanno nel definitivo e ineguagliabile “Bronson”), è tutto più semplice, specie se a recitare è lui da solo in scena (anzi in macchina) per tutto il film. Ma non sono in molti a saper costruire un gran film con così pochi elementi. Locke lavora nell’edilizia, ha un importantissimo lavoro da seguire, ma quella sera si mette in macchina per andare a Londra, dove lo attende una questione assai importante: gli sta nascendo un figlio. Il problema è che la moglie e i figli a casa non lo sanno. Impossibile dire di più, gravissimo non vedere questo film. Vivamente consigliato a sceneggiatori e aspiranti tali: non perché lo studino, ma perché lo imparino a memoria.

CASETTA IN CANADÀ. Un Polanski omosessuale, carico di tensione e umorismo nero. “Tom à la ferme” è l’ultima opera di un canadese di 24 anni, Xavier Dolan, che finora ha alimentato un piccolo culto intorno al proprio nome nel circuito festivaliero internazionale e qui a Venezia avrebbe potuto cogliere la definitiva e meritata consacrazione se solo la giuria si fosse accorta di lui. Peccato. Tom (interpretato dal regista con le mèche) è un ragazzo di città che si ritrova nella sperduta campagna del Quebec per un funerale: è morto il suo compagno. Ma la relazione va mantenuta segreta alla madre del defunto, la quale vive con il fratello agricoltore che invece sa tutto e sin da subito appare piuttosto disturbato. Nel calibrato gioco di attrazione e repulsione si snodano le vicende nella fattoria, con un paio di apparizioni che segneranno le svolte drammatiche. Dolan imbastisce la sua trama su un pugno di personaggi assai riusciti, tutti in lotta con una forma di ostilità psicologica e ambientale. Il sesso – molto intelligentemente il regista evita di mostrare alcunché – è la forza morbosa che muove i fili e proprio sulle ambiguità di questa pulsione le dinamiche della storia si muovono con un’alternanza funambolica di commedia e thriller, lavorando sulla sfrontata brillantezza dei dialoghi e sulle atmosfere (mi raccomando: mai inoltrarsi in ottobre dentro un campo di mais, le foglie son come lame). E’ quasi incredibile che dietro la macchina da presa ci sia un autore così giovane e già titolare di un tale mestiere.

LE BATTAGLIE DI ALGERI. Atro che una, tante piccole battaglie si consumano ad Algeri ogni giorno. “Es-stouh (Les Terrasses)” di Merzak Allouache è il racconto corale e intrecciato di una serie di personaggi che su diverse terrazze della città, in una giornata qualsiasi, vanno incontro a un destino violento. Le storie, scandite dalle cinque preghiere quotidiane che da prima dell’alba accompagnano i fedeli fino alla notte, ci vengono presentate nella diversità sociale dei vari personaggi: la famiglia abusiva devastata da droga e delusione, il pugile, i delinquenti, la troupe di un documentario, una band di musicisti, la donna sola che li ascolta, il padrone di casa arrogante, il guaritore picchiatore… Ogni storia si sviluppa lungo la sua tragica traiettoria accogliendo nuovi personaggi (da segnalare un memorabile ex poliziotto comunista col fascino di un Lino Ventura arabo), facendosi metafora del Paese attuale, segnato ancora dalle ferite della sua recente storia post-coloniale e dal mancato riscatto sociale. Durissimo, molto attento allo sviluppo dei molti personaggi, montato superbamente con una particolare attenzione alla componente sonora, “Es-stouh (Les Terrasses)” è stata una bella scoperta.

IL MOSTRO E LA MOSTRA. La gelosia, “il mostro dagli occhi verdi”, non seduce la mostra della laguna. “La jalousie” di Philippe Garrel è tra i film più belli e intensi visto quest’anno in concorso ma ingiustamente dimenticato nel palmares, a vantaggio delle inutilità greche ed orientali. Programmaticamente nostalgico nel suo bianco e nero molto nouvelle vague, è in realtà una riflessione che non teme il tempo intorno all’amore e alle sue intemperie. Intrecci fedifraghi si compongono e si rompono, nella Parigi bella e non invadente dei giorni nostri. Dialoghi magnifici, allergici alla ripetitività e alla noia. Lui è un attore che per amore di lei lascia moglie e figlia (con cui mantiene però uno stretto e tenero rapporto). Poi però lei segue la legge della giungla: “Essere al verde va bene, ma esseri poveri è insopportabile”; mentre lui resta fedele alla “legge del deserto”, che recita: “Come nel deserto, devi dare ospitalità per tre giorni e tre notti, poi però devono andar via”. Ferocia senza cinismo, spietata dolcezza, spudorato autobiografismo: il figlio di Garrel, Louis, interpreta quello che nella realtà fu il padre di Garrel. La dimostrazione che con una solida sceneggiatura, un pugno di attori indovinati e una colonna sonora semplice ma azzeccata si può fare un’opera memorabile.

MADRE, FIGLIO E SPIRITO SANTO. Con “Philomena” il buon Stephen Frears riesce a fare contemporaneamente un bel film sulla maternità, un bel film sulle radici e un bel film sul giornalismo. Prodotto, scritto e interpretato da Steve Coogan, a tutti gli effetti da considerarsi coautore col regista, vede senza dubbio nell’interpretazione di Judi Dench il suo punto di forza, ma è ben lontano dall’essere esclusivamente una passerella per la proverbiale eccellenza della recitazione inglese. Il film intreccia sulla ricerca di un figlio perduto mezzo secolo prima dall’anziana cattolica irlandese Philomena, figlio sottrattole dalle suore perché illegittimo e venduto a una coppia americana, la storia di riscatto del giornalista Martin Sixsmith. I due partono per gli Stati Uniti alla ricerca del figlio Anthony (lautamente sovvenzionati dal giornale: pura fantascienza nell’Italia contemporanea). Anthony è morto di Aids, dopo aver nascosto pubblicamente la propria omosessualità perché nel partito repubblicano in cui militava era malvista: e lui era nientemeno che consigliere di Reagan e Bush senior. Solo che prima di morire… Se tutto sembra un po’ inverosimile, ricredetevi: è una storia vera. I fatti si svolgono dieci anni fa e Frears presenta quella stagione post-11 settembre come una sorta di reaganismo riedito. Film di scrittura più che di regia (giustissimo premio alla sceneggiaura), ha tutte le carte in regola per centrare il successo planetario.

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STELLA COMETA. Recuperiamo dal primo giorno della Mostra, una vita fa, questo “Bethlehem” dell’israeliano Yuva Adler, presentato alle Giornate degli Autori, di cui è risultato vincitore. Film che dimostra come Tel Aviv sia davvero una frontiera avanzata del racconto audiovisivo: per la tv lì hanno partorito i format originali di “In Treatment” e “Homeland” (replicati in altri Paesi, a partire dall’America), ma anche sul grande schermo si sanno muovere benissimo. Giochi di potere, spionaggio, tradimenti, doppiogioco, sullo sfondo il conflitto israelo-palestinese. Grande ritmo, grandissimo senso del racconto, senza manicheismi ma con la capacità di prendere posizione rispetto alle scelte morali dei propri personaggi. Secco e preciso: non a caso il giovane regista si è diviso all’università tra la matematica e la filosofia, prima di abbracciare la settima arte. Un film che avrebbe le caratteristiche strutturali (con le sue molteplici linee di racconto e le azzeccate definizioni dei personaggi) per diventare una serie di successo. L’ennesima israeliana.

‘Bethlehem’ Trailer from The Playlist on Vimeo.

DIO DEL MISSISSIPPI. Che ci vai a fare a Memphis se non per il blues? E infatti è proprio sul blues che Tim Sutton imbastisce la storia di “Memphis”, uno dei tre progetti che la debuttante Biennale College ha prodotto (gli altri due sono “Yuri Esposito” e “Mary is Happy, Mary is Happy”) e che ha tutte le qualità per imporsi. Un film spiritualmente connesso con la musica della malinconia, “la malinconia dei neri del Mississippi”. E profondamente, tormentatamente religioso: il protagonista è costretto a produrre un nuovo cd, ma sente che l’ispirazione sta svanendo, come forse la sua stessa fede in Dio. Proprio Dio e la sua ricerca è evocato, nei testi, nei pensieri a voce alta, nelle discussioni tra i personaggi: gente afroamericana del Tennessee, con un occhio al cielo e uno al peccato, che parla di “abiura”  e di “Calvario” come se vivesse nelle pagine del Vecchio Testamento e non nell’America contemporanea. Imperfetto in molti punti, specie nel finale un po’ appeso, il film di Button si nutre però di una profondità spirituale ormai rara nell’autorialismo dello scandalo che va imponendosi. Belli i monologhi del protagonista, bukowskiano quello geniale sulla “gloria” (”Non c’è gloria nei bar…”). Giovane promessa.

IL VECCHIO DON. Guerra. Nel momento in cui sul conflitto in Siria ci si interroga angosciosamente se gli Stati Uniti d’America debbano continuare o no a essere gli “sceriffi del mondo”, la “nazione indispensabile” a tutela della libertà in ogni parte del mondo, Venezia con tempismo propone  il documentario “The Unknown Known” di Errol Morris sul “ministro della guerra” più famoso degli ultimi decenni: Donald Rumsfeld. Segretario della Difesa con George W. Bush (lo era stato già con Gerald Ford negli anni Settanta), ha gestito le operazioni belliche dal Pentagono nel post-11 settembre. E’ stato l’uomo della lotta a tutto campo contro il terrorismo islamico, contro i nemici giurati dell’America, Osama Bin Laden e Saddam Hussein. E l’uomo del “pantano” in Iraq (col corollario delle scandalose detenzioni ad Abu Ghraib e Guantanamo), l’uomo di punta dal 2001 al 2006 di un’amministrazione criticatissima, costata all’America sangue e soldi in nome della sicurezza. Morris ha raccolto circa 33 ore di interviste nel corso di 11 sedute nei suoi studi di Boston, non risparmiando a Rumsfeld nessun capitolo scomodo della sua biografia politica e della guerra al terrore. E tuttavia se l’obiettivo era inchiodare l’uomo alle sue responsabilità, va detto che l’uomo ne esce come un gigante: con il suo ghigno permanente, la risposta pronta e tagliente, le idee chiarissime e inscalfibili, la commozione sorprendente sui veterani di guerra. Alla fine si applaude, e il sospetto è che si applauda il vecchio Don.

DIMENTICARE VENEZIA. “Dimenticare Venezia” non è un proposito, ma il titolo di un film di Franco Brusati, autore bravo e ingiustamente dimenticato dopo la sua scomparsa, del quale la Mostra ha meritoriamente presentato il capolavoro restaurato “Pane e cioccolato”, la più bella commedia italiana degli anni Settanta, insieme ad “Amici miei”. Nino Manfredi è emigrato in Svizzera dal Mezzogiorno d’Italia, soffre il razzismo e la miseria, ma sa che lì e solo lì avrebbe forse la possibilità di una vita migliore, certo non nella derelitta Italia: altro che sole e mandolino, è il lavoro a dare dignità. Modernissimo, struggente e feroce, “Pane e cioccolata” ci auguriamo possa avere una circolazione: i grandi film la meritano.

TRACCIA FANTASMA. Sui giornali s’è letto delle fortune contrattualistiche (370 mila euro all’anno per occuparsi di diritti tv del calcio) della sedicente ex fidanzata di Berlusconi, Sabina Began. Evidentemente è un periodo fortunato per le fanciulle arcoriane di quella stagione. Un’altra presunta ex, Evelina Manna, s’è infatti presentata al Lido come produttrice: trattasi di uno spot contro l’omofobia, dal titolo “Let’s fall in love”. Se non state rabbrividendo abbastanza, aggiungiamo che alla regia c’è niente di meno che Pappi Carsicato. Sì: effettivamente il tutto sembra un film di Pappi Corsicato, ma è rigorosamente vero. Parlare di Api Regine ci induce ad assegnare la Leonessa d’Oro per il sex appeal a Melanie Thierry del modesto “The Zero Theorem”, che palesemente straccia l’aliena Scarlett Johansson – sulla via dell’incaciottamento, come attestano certi suoi nudi rigorosamente in campo lungo –  del più riuscito “Under the skin”. Lenone d’Oro senza dubbio al bravo Alfonso Santagata per la piccola strepitosa parte nel dimenticabile “L’intrepido” di Gianni Amelio.

Epilogo sui prologhi: i film del concorso erano preceduti in proiezione da brevi spezzoni dell’Archivio Luce dei cinegiornali fatti nelle edizioni passate. Scelta autopunitiva. Tra un conte Volpi con la svastica sul braccio nel ’39 e un “Deserto Rosso” e “Il Vangelo secondo Matteo” duellanti nell’edizione del ’64 (al che scattava la classica domanda: “Ma ti rendi conto, siamo passati da Antonioni e Pasolini a…vabbè lasciamo stare”), ci è rimasto impresso il maledetto ’56: nella Sala Grande si accomodavano in platea Igor Stravinsky, Maria Callas, Arthur Rubinstein. Domenica scorsa, giorno di massime presenze al Lido, in transito per i luoghi del festival abbiamo riconosciuto… vabbè, lasciamo stare.

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