Nati anni ’80, generazione cavia dell’Italia in crisi

I meno influenti nella storia del Paese?

«Essere i primi a vivere gli effetti di una riforma è svantaggioso solo quando le riforme sono incomplete. In quel caso chi le vive non le sperimenta positivamente ma le subisce come una cavia», commenta il professor Alessandro Rosina, Docente di Demografia in Università Cattolica e autore di Non è un Paese per giovani (Marsilio 2009).

Quella dei nati negli anni ’80, allora, la chiameremo proprio così: «Generazione cavia». O, se preferite, «Generazione testuggine», travolta da una tempesta di riforme come i fanti romani dalle bombe degli eserciti nemici. A far da scudo, i soldi di mamma e papà. Perché i giovani che oggi hanno tra i 24 e i 33 anni hanno fatto ingresso nel mondo dell’università o del lavoro proprio nel momento in cui una nuova riforma lo stava trasformando profondamente. E sempre a loro svantaggio.

Facciamo degli esempi verosimili. Sara nasce nel 1980, si diploma nel 1999. Decide di non proseguire gli studi e cerca lavoro. Di fronte a sé trova le novità del pacchetto Treu del 1997, le prime forme di lavoro flessibile con il lavoro interinale e i primi tirocini senza obbligo di retribuzione. Luigi nasce nel 1981, frequenta il Liceo e si diploma nel 2000. Si iscrive all’Università. Accedendovi si scontra con la riforma del 3+2, introdotta proprio in quell’anno. Marina nasce nel 1982, frequenta l’Università e inizia a cercare lavoro nel 2008. A quel punto è già in vigore la Legge Biagi, con le sue forme di lavoro flessibile, tra contratti a intermittenza e a progetto. Mario nasce nel 1986. Quando finisce l’Università e inizia a lavorare è il 2012. Da questo momento sa che inizierà a maturare una pensione in base ai contributi versati nell’arco di un’intera vita, perché è già in vigore il nuovo sistema contributivo Fornero al posto del vecchio retributivo. Ma gli stessi giovani sono cresciuti mentre l’Unione Europea prendeva forma e potere normativo. Erano adolescenti l’11 settembre del 2011, e si sono confrontati con un mondo sempre più globale. Un mondo tutto in trasformazione.

Riforme dannose perché incomplete

«La riforma universitaria del 3+2 ha trasformato l’Università in un percorso di navigazione a vista», commenta Alessandro Rosina. «Ha costretto i docenti a frammentare un percorso quinquennale solido e di lungo respiro in programmi ridotti e congestionati». Ma è soprattutto, aggiunge il professore, una riforma che ha mancato il suo obiettivo primario, quello di «velocizzare l’ingresso nel mondo del lavoro. È un dato riportato da molti che la laurea triennale non è facilmente spendibile. Colpa di datori di lavoro incapaci di dargli importanza, certo, ma anche di una riforma incompleta, che non ha insistito abbastanza sulla connessione tra formazione e lavoro».

La stessa incompletezza che Rosina evidenzia nelle ultime riforme del mercato del lavoro, dal pacchetto Treu a quella Fornero. «Anziché realizzarle per migliorare il percorso dei giovani, sono state introdotte novità a vantaggio dei datori di lavoro, in primis con un abbassamento del costo del lavoro». Ma è mancato, denuncia il demografo, «un welfare di sostegno. Reddito minimo garantito, disoccupazione. Tutto ciò che all’estero permette di tenere basso il costo lavoro senza danneggiare». Una riforma del welfare che si sarebbe potuta raggiungere solo coinvolgendo anche le generazioni più anziane, colpendo i loro diritti acquisiti. «Se la riforma avesse toccato tutti, la riforma degli ammortizzatori sociali l’avremmo avuta per forza, perché le novità avrebbero toccato anche i protetti dai sindacati. Invece si è scelto di scaricare tutto sui nuovi entranti. Con l’idea che dei più giovani se ne sarebbe occupata la famiglia di origine. Il prezzo pagato è la minore intraprendenza e autonomia dei ragazzi. E una svalutazione delle loro capacità e competenze».

Formazione terziaria di massa. L’influsso della Ue

«Questa è anche la prima generazione fortemente sbilanciata verso l’educazione terziaria, rimasta più a lungo delle altre dentro percorsi di formazione», commenta Francesco Marcaletti, docente di Sociologia presso l’Università Cattolica. «La si è voluta accompagnare verso la laurea. Al contrario dei baby boomer, la generazione dei diplomati che ora tiene in piedi le pmi del made in Italy». Eppure, continua Marcaletti, «ciò è accaduto in un Paese dove le imprese non erano pronte ad accogliere giovani qualificati». Lo si è fatto, sostiene, per la necessità di assecondare scelte dettate dall’Unione europea, di maggiore istruzione e più flessibilità nel mondo del lavoro. («È una delle prime generazioni che subisce i dettami dell’Ue», commenta il professore). Ma frutto anche di mancanza di lungimiranza.

«Sociologi, demografi e accademici non si sono accorti di quel che sarebbe successo negli anni 2000, con le conseguenze portate dalla nascita di un milione di bambini all’anno per 10 anni tra anni ’60 e ’70, e dalla successiva decrescita demografica. Gli Usa hanno già previsioni su popolazione del 2050. Noi ci occupiamo dello squilibrio demografico solo ora, con la riforma Fornero e il sistema pensionistico contributivo. Abbiamo agito pezzo per pezzo. E le riforme di oggi sono tentativi di aggiustamento per restare dentro parametri di sostenibilità sociale, economica, finanziaria e politica accettabile».

La generazione meno influente della storia

Se le generazioni più anziane hanno permesso che le nuove riforme colpissero solo i più giovani, la causa è di tipo demografico. Ne sono convinti il professor Rosina ma anche Massimo Livi Bacci, docente di Demografia all’Università di Firenze, ex senatore e autore del volume Avanti giovani, alla riscossa (Il Mulino, 2008). Uno squilibrio che potremmo riassumere così: a fare le riforme è la generazione dei sessantottini, i baby boomer nati a frotte di un milione all’anno. A subirle, quella degli anni ’80, quando la natalità in Italia iniziava a calare.

Adolescenti e giovani (15-29 anni), e loro potenziali genitori (45-59 anni). Nel giro di sessant’anni in Italia il numero dei giovani è diminuito del 27%, in Germania del 5 e in Spagna del 3% mentre è aumentato del 10 e del 19% rispettivamente nel Regno Unito e in Francia.

I ventenni del 2008 – scrive Massimo Livi Bacci nel suo volume – sono poco più della metà dei loro coetanei del primo dopoguerra, ma in compenso hanno una dote personale assai più ricca a cominciare dal benessere economico, perché lo standard di vita delle loro famiglie si è quintuplicato». E come è possibile allora – si chiede il professore nato nel 1936 – che un bene così scarso, fatto di giovani che «in ogni decennio trascorso dal 1950 hanno guadagnato un centimetro e mezzo di statura, aggiunto quasi due anni alla speranza di vita e trascorso un anno e un trimestre in più sui banchi di scuola», sia oggi così ininfluente? Perché oggi «i giovani hanno ceduto spazio, e contano assai meno di un tempo nella politica, nell’economia, nella cultura, nella famiglia»?. È la sindrome del ritardo, spiega il demografo. Ossia il «ritardo con cui si entra a pieno titolo nella vita sociale e adulta». La perdita di prerogative è – secondo Bacci – il risultato di una serie intricata di cause. Un esempio. «Se le coppie si formano tardi e fanno le loro scelte riproduttive a età elevate e con troppa parsimonia, ciò è dovuto a una politica formativa troppo diluita nel tempo, a un’organizzazione della società e del mercato del lavoro che rende più costoso (per le donne) avere figli, a trasferimenti sociali particolarmente esigui per le famiglie, a una politica della casa che ha favorito la proprietà rispetto all’affitto».

Perché i giovani non reagiscono

«Hanno subito i cambiamenti come una tempesta, uno dopo l’altro. Come è possibile elaborare una risposta in questo modo? Incapaci di leggere le trasformazioni cui erano sottoposti, i giovani hanno pensato piuttosto a salvarsi individualmente», commenta Rosina. In una situazione come quella attuale, «le alternative sono due. O ti rivolgi allo Stato e cerchi di produrre cambiamenti pubblici. Oppure chiedi aiuto alla famiglia. E i giovani, sfiduciati verso lo Stato, con una classe dirigente chiusa e corporativa, hanno trovato più facile cercare la solidarietà della famiglia».

Il peso della paghetta dei genitori nel reddito dei giovani europei

E poi c’è la fuga all’estero. «L’elaborazione dei cambiamenti in corso e la ricerca di una risposta è fatta da un’élite di persone, non da tutti i nati di una la generazione. Anche il ’68 è stato fatta da un gruppo ristretto di ragazzi che ha prodotto idee e slogan poi adottati da tutti. Perché non è accaduto?», si chiede Rosina. «L’élite culturale appartiene spesso alla classe sociale più alta, più tutelata, con maggiore vantaggio competitivo. Chi è figlio di famiglie più solide economicamente, in una situazione di crisi ha più opportunità degli altri, a parità di merito. Perché può permettersi di essere pagate meno più a lungo, ad esempio. O di cercare per più tempo di fare il lavoro che desidera. Per cui non è motivata a reagire». Le élite nate da classi più basse, invece, «oggi fuggono all’estero e trovano lì l’opportunità di realizzarsi».

Tra le riforme subite dalla generazione cavia, ce n’è una mancata. Quella che ne depotenzia ulteriormente il potere politico. «Abbiamo le soglie per entrare al Senato e alla Camera più alte d’Europa. Queste soglie anagrafiche creano ulteriore vincolo alla partecipazione. Perché non sono state tolte? Non costa nulla farlo. È segno di scarsa lungimiranza dei vecchi, ma anche assenza di una richiesta da parte dei più giovani, che non si fanno forza attiva per un cambiamento in varie direzioni».

Il confronto con i Sessantottini

Chi non è d’accordo con l’idea di una «Generazione cavia» è Andrea Ichino, docente di Economia Politica presso lo European university institute di Fiesole. «Ogni generazione ha la sua serie di cambiamenti di contesto», spiega. «E non penso che quella nata negli anni ’80 sia più sfortunata della mia o di quelle più giovani». «Noi nati negli anni Sessanta abbiamo sperimentato la nuova maturità, ridicola con quattro materie all’esame di cui due a scelta. La Scala mobile introdotta e poi tolta, la Riforma fiscale. La nascita delle Regioni e la liberalizzazione degli accessi all’Università portata dal ’68. Nel 1970 lo Statuto dei lavoratori». A danneggiare i giovani, sostiene Ichino, non è la quantità di riforme subite, ma il fatto che le riforme siano introdotte senza una preventiva fase di sperimentazione simile a quella che in campo medico precede l’approvazione di farmaci e terapie».

Identità fragili

Ad osservare la situazione difficile dei giovani è anche la Chiesa. A Milano, Don Maurizio Tremolada, responsabile della Pastorale giovanile, ha commissionato una ricerca intitolata Giovani e Fede, che sarà presentata a ottobre in diverse città della Diocesi. «Per capire come accompagnare i giovani nel percorso di fede, dice, è importante conoscere le sfide che stanno vivendo e andare oltre le letture semplicistiche alla “bamboccioni”». Al centro delle indagini il tema dell’identità, e il modo in cui la crisi economica e la frammentazione delle vecchie istituzioni influenzano le scelte dei ragazzi tra i 18 e i 30 anni. A preoccupare maggiormente Don Maurizio è il fenomeno dei Neet, i giovani che non hanno ne cercano un impiego. «L’identità si costruisce attorno alle relazioni vissute, a ciò che uno fa, quindi il lavoro, e – per noi credenti – alla relazione con Dio. Ma se è tutto fragile, attorno a cosa mi costruisco un’identità?». Il lavoro è una questione centrale, continua Tremolada. «È un diritto da garantire ma anche dovere e impegno. È qui che nasce la responsabilità, che definirei come la risposta a una richiesta che ci viene fatta».

Quella dei Neet, invece, è una condizione di sospensione che non aiuta a crescere. Ma tra i giovani milanesi Don Maurizio trova spesso anche una paura forte di instabilità. «Le scelte dei giovani, scrive a proposito nel rapporto Giovani e fede, rischiano di essere lette solo in relazione alla precarietà lavorativa ed economica anziché come processi di definizione di una progettualità identitaria. I giovani hanno bisogno di verificare la solidità delle basi su cui fondano le proprie decisioni».

La questione riguarda tutto il Paese

«Il ritardo con cui si entra a pieno titolo nel mondo della ricerca comporta una «perdita netta» di innovazione non recuperabile nel resto del ciclo di vita», spiega Livi Bacci. Ma non solo. «L’entrata tardiva (rispetto al passato o ad altri Paesi) nel mercato del lavoro “vale” 1-2 milioni di occupati in meno, corrispondenti a un’economia significativamente “più piccola” (del 4-8%)». E ancora, il ritardo nel decidere di metter su famiglia, comporta «una riduzione della fecondità» e una «riduzione del numero dei figli». Conclude Bacci: «Se la sindrome del ritardo ha un costo privato relativamente basso o scarsamente percepito, il suo costo pubblico è invece rilevante. È una delle ragioni principali dello sviluppo frenato del Paese e dello svantaggio rispetto ad altri Paesi europei».  

Le tre C di Alessandro Rosina: vicini al riscatto?

Non è tutto negativo il quadro tracciato dagli esperti sulla «Generazione cavia». «È una forza timida, indebolita dalla crisi economica proprio nel momento in cui si affacciava al mondo del lavoro, ma che tuttavia deve fare il cambiamento», afferma fiducioso il professor Rosina. «Negli ultimi anni la consapevolezza degli under Trenta è cambiata. Conoscono le proprie capacità e sanno di vivere in un Paese rigido». Ma non solo. «Quando giro per l’Italia, per partecipare a un convegno o a qualche dibattito pubblico, mi accorgo che quando c’è qualcosa che funziona, i giovani sono sempre pronti a sostenerla». Sono quelle che Rosina definisce nel suo volume le tre C: C di confidence, consapevolezza delle proprie capacità; C di connected, perché «la rivoluzione tecnologica può fare la differenza, diventando arma positiva per creare informazione, consenso sociale, interazione»; C di cambiamento, quello chiesto dai giovani, quello di cui vorrebbero essere parte attiva, loro «che di questo Paese si considerano la parte più capace».

Twitter: @SilviaFavasuli

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