La giornata politica di ieri era segnata da questi due avvenimenti cruciali: l’intervista di Enrico Letta con cui il premier ha detto da Maria Latella su Sky, garbatamente ma lo ha detto, che Silvio Berlusconi non c’è più (perchè, sottointende, lo ha battuto lui). E il comunicato con cui Angelino Alfano gli ha risposto, molto ma molto garbatamente, che si facesse gli affari suoi e non si intromettesse nelle vicende del Pdl (perché, sottointende, lo sta addomesticando lui).
Chiunque sia dotato di un quoziente intellettivo non irrilevante, e chiunque abbia seguito il terremoto di questo giorni, sa che Alfano è il migliore alleato di Letta, e che quella polemica del vicepremier contro il suo premier era falsa come una moneta di stagno, una banale scaramuccia da agenzia, fatta per salvare un’apparenza, e negare l’immagine da congiurato che il coordinatore del Pdl per adesso si ritrova incollato addosso.
D’altra parte, su questo stesso sito, con un bellissimo retroscena, Salvatore Merlo ci ha raccontato come proprio in quelle ore – per motivi complessi ma comprensibili – Berlusconi abbia incontrato lo stesso Alfano, e gli abbia manifestato il suo disagio per l’iniziativa di Raffaele Fitto, che pure ha creato una corrente “lealista” nei confronti del Cavaliere. Per cui – se ci pensate – ci ritroviamo con una destra in cui ci si divide tra i berlusconiani che combattono per superare Berlusconi (ma vogliono la sua benevolenza), e gli ultraberlusconiani che combattono contro questi berlusconiani post–berlusconiani (ma lo fanno anche a dispetto del Cavaliere). Livello di comprensibilità per gli elettori della coalizione? Zero.
Nel Pd, invece, a pensarci bene va ancora peggio: la sinistra postdiessina appoggia Letta che si atteggia a matador di Berlusconi, e si fa forte dell’alleanza con i Berlusconiani, per difendersi da quello che fino a ieri era il più berlusconiano dei leader di sinistra, ovvero Matteo Renzi. Questa sinistra quindi, oscilla tra le larghe intese e il renzismo come un relitto alla deriva, senza avere apparentemente più nulla da dire. Fino a ieri, perlomeno, poteva raccontare a se stessa di battersi contro falchi e pitonesse, ed era supportata, nella sua mediocre remissività dal grande alibi del Cavaliere: adesso ha la prospettiva di essere supportata da una triade di “liberatori”, che, come è noto, è capitanata da quella simpatica pattuglia cheguevarista che tiene insieme “i compagni” Fabrizio Cicchitto, Carlo Giovanardi e Roberto Formigoni. Roba da automutilarsi con la pistola sparachiodi.
Questa semplice catena sillogistica, in una qualsiasi domenica nel tempo delle larghe intese (e di quella che Letta chiama “la maggioranza piu coesa”) racconta due cose: che a destra e a sinistra, a parte qualche impercettibile variazione di microclima misurabile solo con il microscopio elettronico, da un pugno di addetti ai lavori, se si escludono terremoti o moti di piazza, potrebbe non accadere più nulla di rilevante per almeno tre anni.
Lo scenario probabile in cui Berlusconi sta abbandonando la sua linea di rottura e di combattimento, dunque, non può essere salutata da nessun raffica di mitra, da nessuna gioia, da nessuna festa di Liberazione. Si esce dall’epilessia per entrare nella narcosi e nella catalessi. La guerra per la successione a destra è più noiosa di una tempesta in un piatto di brodo. La lotta per la successione, a sinistra, diventa un semplice problema di rapporto tra due post democristiani, che devono trovare un punto di equilibrio per spartirsi le due poltrone anteriori dell’“Alfetta” di governo: quella di Palazzo Chigi e quella del Nazareno. Se anche Gianni Cuperlo dovesse continuare a sostenere l’ineluttabilità del governo Alfetta, l’interesse del prossimo congresso del Pd sarà pari a quello della federazione dei giocatori di scacchi.
Se tutto questo è vero, e se nessuno si metterà a gridare, quindi, l’imminente decadenza di Berlusconi sarà solo uno stanco rito propagandistico, uno zuccherino offerto ad un popolo di elettori sconcertati per fargli digerire l’incapacità di decidere su nulla, la mancanza di qualsiasi capacità di mobilitazione ideale. Dovremmo augurare che il leader di Forza Italia faccia di nuovo saltare il tavolo dopo il voto finale dell’aula del Senato. Altrimenti vivremo uno scenario in cui, alla tragedia dei militanti e degli elettori, si sommerà anche l’indicibile disagio dei cronisti. Cerco un’alata espressione per descrivere una giornata politica come questa nel tempo delle larghe intese. La cerco me ne viene in mente solo una, vagamente prosaica: pensa tu che palle.
Twitter: @lucatelese