C’è qualcosa che non è stato raccontato bene, o forse che non abbiamo ancora capito, nell’incredibile vicenda di Radiobelva, programma aperto e subito dopo chiuso, dopo una contestatissima prima serata su Retequattro (e la successiva sospensione con annuncio di ritorno a Novembre, in seconda serata, sulla più giovanile Italia 1). Qualcosa che ne fa un programma “maledetto”, cult, ma anche terribilmente “utile”.
Abbiamo letto in questa settimana paginate e paginate di critiche indignate, nientemeno che il parere di un linguista, la prima pagina Corriere della Sera, un dibattito infuocato sui social network segnato da toni accusatori, in quella stessa rete dove peró, nelle medesime ore, la puntata integrale, o i suoi passaggi incriminati, diventavano alcuni dei video più cliccati e scaricati degli ultimi mesi. Apparentemente la condanna dei commentatori è unanime e in linea di massima banale: “Radiobelva” deve essere chiuso perché il suo turpiloquio è inaccettabile.
E, ancora apparentemente, il responsabile di questo terremoto è solo uno. Quel Vittorio Sgarbi, cioè, che con la sua performance vendicativa enunciata in modo trasparente, in diretta, durante la stessa puntata («Io questo cesso di programma lo faccio chiudere») ha fatto deragliare ogni scaletta, e imposto il suo tono con raffiche di insulti a ospiti e conduttori («Voi due siete due grandissime teste di cazzo!», oppure, rivolto alla Parietti: «Alba, allora diciamo che sei una troia?»). Sgarbi era infuriato perché aveva atteso tanto prima di parlare, e poi perché era rimasto ferito dal sarcasmo di Giuseppe Cruciani sul suo tentativo fallito del Partito della Bellezza. Ma il vero sottotesto della lite (che quindi diventa più interessante, a prescindere dai toni con cui si è svolta) è che Sgarbi è il campione storico del politicamente scorretto, mentre lo stesso Cruciani e David Parenzo ne sono l’ultima filiazione: malgrado le apparenze, dunque, quello che si è celebrato è stato un derby, o piuttosto la messa in scena di una sorta di inconsapevole vocazione parricida (con relativa reazione speculare e contraria).
Ecco perché mi sembra che nulla sia come appaia, e che – dietro l’apparente semplicità della lettura che ne è stata data – Radiobelva fosse pieno di cose interessanti. Ed ecco perché mi sembra che ci sia stata molta ipocrisia, a partire dal coro dei presunti moralizzatori puritani, che, come ha scritto giustamente Filippo Facci, si indignano per l’eccesso di parolacce sulle stesse testate che fondano i loro record di traffico su quei video in cui proprio il turpiloquio e l’ingiuria sono l’elemento di attrattiva. Anzi, il primo paradosso che Radiobelva ha meritoriamente svelato è questo: la dittatura del politicamente corretto nei nostri giornali si alimenta e si nutre con il contrabbando della tv estrema e, quindi, evidentemente, pensa di potersi nobilitare con la sua condanna.
Il secondo elemento interessante invece è questo: in Radiobelva Sgarbi era solo uno dei tanti ingredienti “estremi” che, in una prima puntata senza rete e senza rodaggio, avrebbero potuto brillare e detonare in qualsiasi momento. Quindi mi pare che l’imprevedibilità del programma non fosse un limite ma il suo pregio: e che il «vi piscio in testa» di Sgarbi sia stato un incidente, o un eccesso, ma non certo uno scandalo, o un problema strutturale. Il concentrato di follia di Radiobelva, infatti, malgrado questi effetti collaterali, ha ottenuto l’effetto desiderato: è stato una sorta di provocazione dadaista, che ha infranto la barriera del suono, l’abitudine, la prevedibilità di tutti i Talk. E che peró, allo stesso tempo, li ha fatti anche invecchiare. Il fatto che la rottura di linguaggio sia avvenuta sul piano del turpiloquio, quindi, da questo punto di vista è del tutto casuale. Ma nemmeno gratuito o inutile.
È vera quindi la critica di Aldo Grasso, che quel picco estremo di Radiobelva è un punto di non ritorno che mette in discussione non (solo) Radiobelva, ma tutti i programmi che usano il “radiobelvismo” in modo apparentemente controllato omeopatico e meno visibile (compreso il mio, quando accade). Ed è ancora più vero quello che ha detto Carlo Freccero a Matrix: il problema non è che a Radiobelva fossero protagonisti dei “mostri” mediatici, ma piuttosto il fatto che questo mostri fossero prevalentemente quelli degli anni Novanta, dei mostri d’annata, e in alcuni casi prevedibili. Non i mostri del contemporaneo, che ogni giorno saltano fuori come funghi alla Zanzara, quelli che raccontano la crisi italiana meglio di qualunque altra cosa e che sono un segno di successo del programma. Quindi se c’era un limite nella puntata non erano i personaggi eccessivi, ma che i mostri sacri di sempre hanno oscurato i nuovi : per esempio mi sarebbe piaciuto sentire chi era la ragazzina di Forza Nuova che è apparsa ad un tratto in studio, e sapere – magari – perché si sente neonazista e non crede all’Olocausto. Oppure mi sarebbe interessato scavare – come alla Zanzara si fa sempre – sul l’affermazione di Cicciolina secondo cui «Ho guadagnato molto più come pornostar che come parlamentare». Come, dove e quanto? Sarebbe stata una bella anti-morale nel blocco sui costi della politica. Il primo problema forse è che a Radiobelva c’era troppa carne al fuoco e che molti spunti si sono persi per strada (cosa che capita in tutte le prime puntate). E il secondo è che ci fosse non troppa poca struttura ma che ce ne fosse troppa, il che ha impedito di percorrere i filoni non programmati che emergevano in corso d’opera.
Il vero nodo, invece, resta quello della difficoltà di trasporre (o addirittura di tradurre) la lingua della radio in televisione. Il che significa che da un lato avrebbe fatto benissimo al programma riproporre alcune delle “zingarate” più felici della Zanzara (penso alla beffa del finto Ghedini ai danni di don Mazzi sui servizi sociali a Silvio Berlusconi) con qualche semplicissima copertura video. Ma significa anche che l’unica cosa che a me è sembrata stonata era la difficoltà di trasporre in tv il tono “cinico e cattivissimo” che pure è un marchio di successo del programma. Il cinismo pop di Cruciani e Parenzo, che da ritmo e forma alla Zanzara, in quella prima puntata, funzionava male sul piccolo schermo. Se i due mandano a quel paese un ascoltatore e lo tagliano, infatti, è un successo: ma se mandano via un ospite o lo umiliano e tu questi effetti li vedi in faccia, non è la stessa cosa che ascoltarlo: l’effetto satirico viene meno, e chi sta a casa viene preso da un tono di malinconia che avvelena il programma.
Ecco perché l’helzapoppin di Radiobelva può funzionare con poche strategiche messe a norma. Ed ecco perché questa pazzesca prima puntata ha fatto storcere il naso a molti ma può far riflettere tutti: è pop art, è un taglio nello schermo alla Fontana. E soprattutto – se è stato “un numero zero” su un canale sbagliato – può diventare un fenomenale lancio pubblicitario per una eventuale seconda serie sul canale giusto: provate a immaginare cosa accadrà su Twitter appena si sapranno gli ospiti di un’altra puntata. O cosa accadrà nella rete quando le belve torneranno in onda. Diremo che ci fanno schifo, ma non ci perderemo una battuta.
Twitter: @LucaTelese