Che si tratti degli attentati alla Maratona di Boston, dell’uragano Sandy o del terremoto in Emilia Romagna, sempre più spesso, specie nel caso di calamità naturali o incidenti di altro tipo, i primi ad arrivare sul posto e a caricare online le proprie testimonianze, in forma testuale o visiva, non sono i reporter ma dei cittadini comuni, persone a cui è capitato di trovarsi nel posto giusto al momento giusto.
Ai giornalisti non resta perciò, in queste occasioni, che trasformarsi in manager o “curatori” di flussi di contenuti altrui. È per questo motivo che quella che viene definita come content curation, e che ho analizzato in profondità nel paper “Newsroom curators and independent storytellers: content curation as a new form of journalism”, scritto per il Reuters Institute for the Study of Journalism, gioca un ruolo sempre più importante in come le storie vengono create dalle redazioni (o da altri attori) e presentate al pubblico.
Il curatore di contenuti non è altro che una persona che seleziona le migliori informazioni trovate online in base alla loro qualità e rilevanza; ne verifica l’autenticità; le aggrega, linkandole alla fonte originale della news, e vi aggiunge contesto e analisi.
Una delle immagini dell’uragano Sandy tratte da Storify
Ci sono alcuni tipi di storie che si prestano ad essere “curate” meglio di altre: le più adatte sono quelle in cui la partecipazione degli utenti al processo di storytelling, e il loro contributo in termini di contenuti multimediali, è assai vasto. Non si deve trattare per forza di disgrazie, come quelle ricordate più sopra: anche convention politiche, eventi musicali, manifestazioni sportive rientrano in questa fattispecie.
Negli ultimi tre anni sono nate parecchie piattaforme online che semplificano e rendono accessibile a tutti il processo di cura dei contenuti.Alcune di esse, come Scoop.it o Pearltrees non si rivolgono a un pubblico specifico (anche se Scoop.it offre un pacchetto premium per curatori professionisti e aziende). Altre, come Storify, e ScribbleLive, per citare soltanto le più note, si concentrano invece in particolare sulla cura dei contenuti giornalistici.
Il sorgere di queste piattaforme ha avuto un importante effetto collaterale:l’emergere di quelli che potremmo definire “narratori indipendenti”; persone che riassumono in sé competenze prima appannaggio di varie figure professionali; in grado di gestire autonamente, usando contenuti scovati in rete, la costruzione di una storia multimediale, ricca di immagini e testo, da cima a fondo. Può trattarsi di giornalisti freelance o di semplici appassionati, o di persone che lavorano formalmente per qualche media, ma con un tale livello di indipendenza da trasformare il proprio lavoro in un assolo.
L’esempio forse più celebre è quello del giornalista della radio pubblica americana Andy Carvin, noto soprattutto per il suo racconto della Primavera Araba, fatto selezionando, verificando e ridistribuendo contenuti altrui scovati su Twitter. Anche se, è bene precisarlo, Carvin preferisce non adoperare per sé il termine “curatore”: ama definirsi piuttosto un “anchorman delle news”.
Che siano “curatori” come quelli che lavorano con Storify, o “news anchor”, come il giornalista americano, queste nuove figure professionali sono spesso “testimoni lontani” (per parafrasare il titolo di un libro dello stesso Carvin) che seguono a distanza un evento che, per via delle dimensioni e delle condizioni sul terreno, sarebbe complicato raccontare in altro modo.
Claudia Vago, tra i primi giornalisti italiani a svolgere il ruolo di content curator
In altri casi, sono invece degli insider, che bloggano e twittano dal centro dell’azione, come ad esempio è successo nel caso di Claudia Vago, una curatrice di social media italiana che, grazie a una raccolta di fondi online, è riuscita un paio di anni fa a recarsi a Chicago per raccontare da vicino il movimento Occupy.
L’utilizzo della content curation come metodo di storytelling è ancora ai primordi e il potenziale per l’utilizzo dei contenuti generati dagli utenti (o Ugc, acronimo di user–generated content) per creare narrazioni alternative o complementari a quelle prodotte da giornalisti professionisti deve ancora essere esplorato. Una cosa, tuttavia, appare evidente: Internet sta livellando il piano di gioco, come continua a fare ormai da diversi anni, rendendo sempre più sfocata la distinzione fra il ruolo dei giornalisti della redazione e quello di freelance, attivisti, blogger e altri “narratori indipendenti”.
Naturalmente, i media consolidati mantengono un netto vantaggio: possono dislocare staff e risorse per affrontare una delle sfide maggiori dei contenuti generati dagli utenti: la verifica. Una cosa è operare come un singolo, in totale o quasi autonomia, ma di solito con poco tempo (e magari, anche se non necessariamente, poche competenze) o incentivi per autenticare i contenuti; un’altra è fare affidamento su un team di 20 persone, come fa la Bbc.
Andy Carvin, forse il più noto dei content curator
Ma anche questo sta cambiando, grazie a progressi tecnologici che rendono più semplice gestire uno degli aspetti più delicati della curation: la verifica dei contenuti. Vari grandi brand giornalistici si affidano a un agenzia esterna, una società con sede a Dublino chiamata Storyful, che li aiuta a filtrare il “rumore di fondo” e distinguere i contenuti affidabili da quelli dubbi. Le tariffe di Storyful sono al di là della portata di un singolo, ma i “narratori indipendenti” possono fare affidamento su varie iniziative che mirano a ottimizzare e a rendere semi–automatico il processo di verifica. Applicazioni per smartphone come Scoopshot e siti web come CrowdMedia incorporano nel processo di selezione dei contenuti una qualche forma di autenticazione e, nel caso di Scoopshot, chiunque, non solo i professionisti dei media, può assegnare dei “compiti” (tasks) ai cittadini giornalisti.
Ciò in teoria potrebbe consentire anche a chi non è affiliato a un’organizzazione professionale, di raccogliere e adoperare dei contenuti affidabili. E le competenze necessarie per verificare e autenticare, mettiamo, un video o un’immagine, sono anch’esse liberamente disponibili: chiunque, ad esempio, può leggere l’ebook sulla verifica dei contenuti di pubblicato da Storyful e imparare come usare strumenti come TinEye (che serve a capire se un’immagine è originale o è stata già adoperata altrove) o la ricerca tramite immagine di Google.
I principali media hanno però altre frecce al proprio arco: ad esempio, la loro reputazione. Un video o un’immagine girati da un citizen reporter e usati da un giornale come il Guardian ricevono una sorta di imprimatur che aggiunge loro una credibilità e rilevanza che altrimenti non avrebbero. Oltre a ciò, possono raggiungere un’audience più ampia composta da lettori fedeli e focalizzati, evitando il rischio di passare inosservati in mezzo alla miriade di informazioni ora presente sul Web.
Un altro aspetto caratterizzante dei media mainstream, è il fatto che la loro agenda ideologica e le loro linee editoriali sono di solito ben note al pubblico. I lettori del Guardian sanno che si tratta di un giornale progressista e di sinistra e non si aspettano certo di trovarvi lo stesso tipo di contenuti reperibile nel destrorso Telegraph. Lo stesso spesso non si può dire per quanto riguarda i “curatori” che pubblicano le loro storie su Storify, YouTube o altri servizi: qual è la loro agenda? Stanno utilizzando solo i contenuti generati dagli utenti che si attagliano alle loro motivazioni, ignorando tutto il resto? Quali fonti considerano degne di fede, e perché? Sono domande a cui spesso non è facile dare una risposta.
Malgrado questi indubbi vantaggi, non è tutto rose e fiori nemmeno per i giornalisti professionisti, quando anch’essi scendono dal loro piedistallo per entrare nello sfaccettato mondo dei social media. Non di rado, faticano a mantenere l’atteggiamento di equidistanza e neutralità che ci si aspetterebbe da loro. È comprensibile: twittando o postando mentre si sta seguendo un qualche evento, nel cuore dell’azione, può accadere di abbandonare, anche solo per un momento, il tradizionale ruolo di osservatori per entrare nella “conversazione” con gli altri utenti, sul loro stesso livello. Esprimendo opinioni, schierandosi. Cosa che però mal si concilia con l’ambizione (o pretesa) di obiettività del giornalismo – in particolare di quello di stampo anglosassone.
Oltre a ciò, quando hanno a che fare con gli Ugc, i giornalisti devono stare attenti a non essere sfruttati da chi, in nome di una causa o per semplice diletto, cerca di far passare una rappresentazione distorta di un evento: succede per la guerra in Siria, così come per fenomeni naturali, presi a pretesto da qualche buontempone per esercitarsi nell’arte del fotomontaggio.
È un terreno infido, in cui è facile perdersi, come dimostrano anche eventi recenti, ad esempio gli svarioni in cui è incappata la Cnn nella copertura dei Boston Bombings (l’emittente americana assicurò a più riprese che era stato arrestato il possibile responsabile, quando così non era). Fra i progetti recenti di gestione degli Ugc più interessanti c’è quello del Guardian che, per il portale di “giornalismo condiviso” Witness ha fatto tesoro dell’esperienza accumulata nella costruzione della piattaforma open source Notice, incorporando alcuni sistemi di verifica semi-automatica nel software di Witness. Le immagini e i video passano attraverso un primo filtro che ne certifica per quanto possibile la geolocalizzazione (ovvero il luogo dove sono stati girati) e la mancanza di alterazioni. In questo modo, una redazione di due sole persone può far fronte a un flusso cospicuo e continuo di materiale: nei primi sei mesi dal lancio sono già stati validati fra i cinquantamila e i sessantamila Ugc.
Twitter: @fede_guerrini